La città dei vivi di Nicola Lagioia: la storia di Luca Varani diventa un caso editoriale. Recensione
«Questa persona che avete ucciso, chi è?»
«Non lo so»
«Non lo sai?»
«Non lo so»
«E perché l’avete uccisa?»
«Non lo so»
Un dialogo breve ma intenso, quello che si svolge tra Manuel Foffo e il suo avvocato Michele Andreano all’indomani della confessione dell’omicidio di Luca Varani. Un caso di cronaca efferato che si insinua nelle case degli italiani. A scriverne per Einaudi è Nicola Lagioia, romanziere vincitore dello Strega nel 2015 con La ferocia e direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.
La città dei vivi: la trama del libro di Nicola Lagioia
Marzo 2016, Roma, la città senza sindaco ma con due papi, diventa il teatro di un delitto brutale, commesso non da serial killer esperti o clan mafiosi, bensì da due ragazzi di “buona famiglia”. Da un giorno all’altro, Manuel Foffo e Marco Prato diventano i protagonisti delle prime pagine delle testate nazionali e dei telegiornali. Il clamore mediatico è immediato così come le domande inerenti la natura del delitto. Cosa ha portato due giovani a togliere la vita a un altro?
Erano dei cocainomani? Dei disperati? Erano davvero consapevoli di ciò che stavano facendo?
Luca nella stanza mortuaria porta un copricapo perché il cranio non l’ha più. Gliel’hanno sfondato a colpi di martellate quei ragazzi che conosceva appena, e che aveva deciso di raggiungere in un appartamento di periferia, probabilmente per prostituirsi. Aveva iniziato a farlo, di tanto in tanto. I due ragazzi lo sapevano, l’avevano invitato proprio per divertirsi un po’, sapevano che Luca non si sarebbe tirato indietro se avesse avuto l’occasione di guadagnare qualcosa.
È da giorni che Manuel e Marco non escono di casa se non per fare rifornimenti di cocaina e vodka, e sono ormai deliranti quando Luca varca la soglia. Si scambiano un’occhiata d’intesa: non sanno chi stanno cercando, ma hanno entrambi capito che Luca è la persona giusta. Giusta per cosa? Sicuramente non per essere ammazzata, non possono sospettarlo. Non hanno idea di cosa sarebbero stati capaci di fare.
«Sembrava che l’intero stabile fosse immerso in una vasca di sangue. Se ne sentiva l’odore, non era un odore reale, quanto un’emanazione nauseabonda capace di far andare fuori di testa chiunque ci fosse stato esposto a lungo»
La malvagità dei luoghi
Se esiste una malvagità dei luoghi, il palazzo di via Igino Giordani sembra esserne l’emblema.
La violenza selvaggia consumata in una notte di eccessi trasuda dall’intonaco. Un caso del genere tocca l’intero Paese, perché è il segnale che qualcosa è cambiato: i crimini sono diventati alla portata di tutti. Non riguardano più solo i quartieri malfamati di periferia e non vengono perpetrati esclusivamente dalla criminalità organizzata o dagli immigrati, come si tende a pensare seguendo alla lettera il clichè più in voga nell’ultimo ventennio.
Anche i delitti sono emigrati, approdando nei quartieri residenziali, tra i cittadini responsabili che fanno la raccolta differenziata e pagano le bollette della luce.
Ed è proprio questo a fare paura: la possibilità di poter diventare una vittima. O
un carnefice.
La città dei vivi: una non-fiction giudiziaria
Il libro, una non-fiction giudiziaria in cui la narrazione viene usata per ricostruire una vicenda di cronaca nera, nasce dalla rielaborazione di anni di ricerche, di verbali ufficiali e chiacchierate nei bar romani con giornalisti e avvocati. Lagioia, infatti, mostra fin dall’inizio interesse per l’accaduto, incontrando amici e familiari delle persone coinvolte, ognuna delle quali delinea dei tratti diversi delle personalità della vittima e degli assassini. Pirandello ci aveva avvisati: nella vita avremmo incontrato molte maschere e pochi volti.
Eppure, sembra che l’autore utilizzi il caso di cronaca per parlare di qualcosa di più ampio, per fare una meditazione sul male guardando da vicino chi si è macchiato del crimine peggiore che esista, giocando a fare Dio.
Una lingua netta per una storia violenta
Lagioia fa luce sulle ombre della città: la droga, la prostituzione minorile, i ricatti, usando un mosaico di frasi spezzate. Raramente incappiamo in una subordinata o in qualche periodo veramente lungo. La ricostruzione dei fatti è una frase breve, la violenza, la debolezza e il terrore possono stare in una sola parola.
Una violenza che ricade quasi nella possessione, come si è arrivato a parlare nei fatti di cronaca. E anche Nicola Lagioia, dal suo punto di vista laico, ribadisce che non può che dirsi d’accordo: era come se Foffo e Prato fossero troppo deboli e la loro personalità poco strutturata per resistere al male che li travolse.
Trovare una spiegazione razionale a una violenza selvaggia è da sempre inconcepibile per l’essere umano, e diventa necessario ricorrere all’ipotesi della presenza demoniaca.
È il diavolo a lottare con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini. Scriveva Dostoevskij ne I demoni, mostrando come l’essere umano non sia altro che un amalgama di due forze contrastanti. Pochi autori sono riusciti a inserire nelle loro opere una riflessione sui lati più oscuri dell’animo come fece l’autore russo, i cui messaggi restano attuali, pur appartenendo a un mondo a noi lontanissimo. Non è difficile rintracciare il caso Varani in Delitto e castigo, in cui Dostoevskij mostra come desiderio, malattia, ossessione e vendetta si condensino nell’assassinio di Raskolnikov e diventino la premessa per lottare con l’angelo e salvarsi soccombendo.
Prato, infatti, poche ore dopo l’accaduto tenta il suicidio, fallendo. Sembra una presa in giro, fallire nel ricercare la morte ed essere condannato alla vita, oltre che alla detenzione. Riproverà nel carcere di Velletri, stavolta riuscendo nel proprio tentativo. Così Foffo resta l’unico imputato, al quale vengono sentenziati trent’anni di reclusione.
Un libro emotivo e che fa riflettere
Il lettore arriva all’ultima pagina con un forte senso di sospensione emotiva, quasi senza fiato, rendendosi conto di quanto sia facile inciampare nella violenza durante la sua permanenza sulla terra. Nel mondo odierno si esce di casa con la paura di rivestire i panni della vittima, si cammina a occhi bassi per paura che un’occhiata data per sbaglio possa risvegliare l’ira di qualche malintenzionato. Immaginare di poter diventare un carnefice è inconcepibile, forse. Così è sempre un «ti prego fa che non succeda a me» e mai «ti prego fa che non sia io a farlo.»
a cura di Maria Ducoli