Il Continente bianco di Andrea Tarabbia: un romanzo che indaga il fascino del male. Recensione
Tra i dodici candidati al premio Strega 2023 c’è Il Continente bianco (Bollati Boringhieri, 2022), l’ultimo romanzo di Andrea Tarabbia, già vincitore del premio Campiello 2019 con Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019). Anche in questo titolo, proposto alla giuria da Daria Bignardi, lo scrittore si immerge nella malvagità e indaga il fascino che questa può avere su di noi, consegnandoci personaggi violenti e al di fuori delle regole della società.
Il Continente bianco di Andrea Tarabbia: la trama del libro
Il protagonista è uno scrittore di mezza età attratto dal lato oscuro delle storie e impegnato in un percorso di psicoanalisi per affrontare i suoi conflitti interiori. Quando sotto casa del suo psichiatra incrocia lo sguardo magnetico del venticinquenne Marcello Croce, non immagina la spirale di tragici eventi in cui risulterà invischiato. Il giovane Croce è bellissimo e carismatico, è a capo di un movimento di estrema destra e intrattiene una relazione malata e possessiva proprio con la moglie dello psichiatra, Silvia, una cinquantenne dell’alta borghesia romana.
Attratto dall’intrigo in cui si ritrova (apparentemente) per caso, il protagonista viene a conoscenza dell’esistenza di una cellula clandestina dalle ideologie fasciste che si fa chiamare proprio «il Continente bianco». Marcello Croce lo affascina e ben presto lo scrittore diventa il cronista del movimento, ne descrive il covo, le teorie xenofobe e razziste, e viene infine coinvolto in alcuni atti violenti e dimostrativi nei sobborghi di Roma. La relazione tra Marcello Croce e Silvia, invece, è destinata sin dal principio a un epilogo tragico di cui il protagonista diviene testimone.
«Lo guardai, ci guardammo: aveva un occhio blu, ma molto chiaro, quasi ciano, che pareva muoversi più velocemente dell’altro, che era invece di un verde più intenso, quasi solido, e che sembrava contenere un invito a inabbissarvisi».
Il fascino del male e la bellezza che si nasconde in esso
Per scrivere Il Continente bianco Andrea Tarabbia ha preso spunto da L’odore del sangue, romanzo incompiuto dello scrittore e intellettuale del secondo dopoguerra Goffredo Parise. Nell’introduzione al suo romanzo, Tarabbia rivela una vera fascinazione che lo lega al misterioso testo di Parise, definito come oscuro, esoterico. Nell’intento di liberarsi dall’ossessione di una storia malata, violenta, tra una donna borghese e un giovane di estrema destra, Tarabbia scrive un romanzo che riflette proprio sul fascino che il male può avere sulle persone miti, ordinarie. L’autore lo definisce «uno dei punti oscuri dell’umanità», ovvero l’idea che il male possa compiersi attraverso qualcosa di bello, elegante, persino raffinato. Tant’è che lo scrittore si immerge nel male, ne coglie le sfumature senza giudicare o prendere una chiara posizione. Lascia che sia il lettore a farlo, liberamente, secondo la propria ideologia e sensibilità.
«[…] che ci possa essere levità, e risa, e gioia, in chi compie qualcosa che per noi è orribile e violento – ecco una cosa che non è tollerabile, che fa più male del male stesso perchè dice che la vita, la vita di chi compie il male è, in fondo, nella gioia e nel dolore, non troppo dissimile dalla nostra».
La scrittura di Andrea Tarabbia in Il Continente bianco
Andrea Tarabbia sceglie di attribuire al protagonista il suo nome, tanto che in un paio di occasioni, nei primi capitoli del libro, lo psichiatra e sua moglie Silvia si rivolgono a lui chiamandolo proprio per nome e riferendosi ai suoi libri di successo. Il gioco letterario che sovrappone l’autore all’io narrante è efficace. Lo stile di scrittura è scorrevole e capace di attrarre il lettore nella storia sin dai primi capitoli, descrivendo, con crescente tensione, scene di violenza, ambienti malsani, odori e pulsioni di personaggi invasati dal fanatismo. Nel raccontare le ideologie, l’organizzazione e le azioni del Continente bianco, non mancano i riferimenti all’universo sovversivo, ai combattimenti clandestini e intrisi di testosterone di Fight Club, alle scene di terrore e violenza gratuita di Arancia Meccanica, e al modo in cui un’ideologia estremista e suprematista può esercitare un fascino di certezze e riconoscimento sulle persone comuni, riprendendo le riflessioni di Hannah Arendt in La banalità del male.
«Ma io questa storia l’ho cercata, l’ho inseguita per anni dentro e fuori la letteratura, mettendo a rischio me stesso e gli altri: considero pertanto un mio preciso dovere portarla a termine, qualunque sia il risultato che riuscirò a conseguire».
A cura di Silvia Ognibene e Natale Vazzana