Fame d’aria di Daniele Mencarelli: manifesto ribelle di un genitore solo contro l’autismo. Recensione

 Fame d’aria di Daniele Mencarelli: manifesto ribelle di un genitore solo contro l’autismo. Recensione

Avevamo lasciato il protagonista dell’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli, Sempre tornare, per strada in un viaggio di ritorno verso casa. Ed è dalla strada che i personaggi e la scrittura di Fame d’aria, uscito per Mondadori il 17 gennaio, riprendono idealmente il cammino .

Il protagonista del romanzo non è più il ragazzo Daniele con cui si è conclusa la trilogia nella quale giovinezza e disagio giovanile hanno un ruolo centrale – ma è Pietro, un uomo, un padre indignato e triste che ha a che fare con suo figlio Jacopo, affetto da autismo.

Fame d’aria di Daniele Mencarelli: la trama del libro

Pietro ha cinquant’anni ed è grafico. Di creatività nel suo lavoro negli ultimi anni di pandemia ne ha messa ben poca, se non per disegnare i plexiglass divisori per i luoghi pubblici. 1380 sono gli euro che incassa di stipendio mensilmente per mantenere suo figlio Jacopo, diciottenne autistico a «basso funzionamento, bassissimo» e sua moglie Bianca, costretta a lasciare il lavoro per badare al ragazzo.

Fame d’aria comincia in auto. Pietro, con  suo figlio, è diretto a Marina di Ginosa, in Puglia, luogo del primo incontro con Bianca, la moglie, e meta scelta per festeggiare l’anniversario di matrimonio. Ma un guasto alla Golf interrompe il viaggio. Pietro, bloccato in Molise all’altezza di Sant’Anna del Sannio, chiede aiuto a un automobilista di passaggio: il suo nome è Oliviero e, guarda caso, è un meccanico e ha un carro attrezzi. Oliviero rassicura subito Pietro:  può riparare il danno alla frizione, però nel giro di qualche giorno a causa della poca reperibilità dei ricambi in zona e il fermo delle attività per via del weekend. Pietro, in assenza di soluzioni e con suo figlio in auto muto che continua a dondolare per l’agitazione, decide di affidarsi a Oliviero.

Arrivati in paese, il meccanico porta i due da Agata, che gestisce un bar con pensione ormai in disuso. Vista la difficoltà della situazione, la donna decide di ospitare in via del tutto eccezionale i due forestieri per i giorni seguenti.

Da questo momento in poi le parole che governano tutta la storia è lentezza e monotonia. La vita di Pietro e Jacopo nella pensione di quel paesino di pochi abitanti si snoda fra cambi di pannolone del ragazzo, mugugni – unico modo di comunicare di Jacopo – tentativi di farlo mangiare, tenerlo calmo, e pensieri, tanti pensieri intrusivi nella mente di Pietro.

A distrarre il padre dalla continua richiesta di risposte alla condizione del figlio – e che Pietro vive come una maledizione inflitta da Dio o da chi per lui –, c’è Gaia, quarantenne aiutante di Agata che crea un legame profondo con Pietro e gli offre aiuto, fino al punto di salvarlo. Sarà proprio lei a far dimenticare a Pietro, per breve tempo, la responsabilità di essere padre di un disabile. Lo aiuterà anche a riprendere familiarità con la dimensione della sua identità, persa negli ultimi anni dietro al ruolo genitoriale, laddove Pietro è Jacopo, e Jacopo è Pietro. Il braccio dell’uno sostiene il braccio dell’altro. Gli occhi persi di uno sono lo sguardo consapevole sul mondo dell’altro. Le decisioni non prese di uno, sono la scelta assertiva dell’altro.

«Non ricorda, Pietro, quando è stata l’ultima volta che ha parlato con un altro essere umano di sé stesso e non del figlio. Proprio di lui».

Le giornate alla pensione scorrono nella perenne attesa di qualcosa: che il meccanico ripari l’auto; che il viaggio riprenda; che arrivi l’ora di mangiare; che le carte di credito di Pietro si sblocchino con l’arrivo dello stipendio per poter pagare meccanico e pensione. E tutto accade sotto lo sguardo indiscreto degli avventori del bar che si chiedono – senza domandare – cosa abbia Jacopo di strano e i chiarimenti di Pietro che spiega «il cosa, il come, il perché» di quella situazione. Per l’ennesima volta. Alle ennesime persone.

Poi, il giorno della fine arriva: Oliviero ripara l’auto, ma quando i conti saranno quasi saldati, a bloccare la ripresa del viaggio verso Marina di Ginosa è la verità dei fatti. Con un clamoroso colpo di scena, Gaia scopre il reale motivo della partenza di padre e figlio, l’intenzione dell’uomo di cambiare quella vita che vita non è. Ed è lì che la rabbia incontrollata – l’unico sentimento provato da Pietro – viene fuori davanti a tutti.

La vita di Pietro e la genitorialità che combatte l’autismo

L’assenza è ciò attorno a cui gira tutto il senso di questa storia: assenza di parola, di comprensione, di sentimenti. Assenza di vita. Jacopo non parla, non capisce. Pietro non ha soluzioni. Tutto è assente. Quello che Pietro vorrebbe manca. Fame d’aria è un manifesto ribelle di chi combatte solo, con la consapevolezza che la rassegnazione è l’unica via d’uscita.

Nei lunghi dialoghi con Gaia, Pietro si fa rappresentante di quei genitori di figli disabili che, senza aiuto e oberati di spese per le terapie, non si arrendono e sperano in un miglioramento che forse non avverrà mai.

«Io ho fatto tutto quello che potevo» dice Oliviero, dopo aver tentato di sistemare al meglio la Golf di Pietro. A volte mancano gli strumenti, altre volte invece ci sono, ma resta comunque il dolore di una famiglia intera. Allora la soluzione è nell’extrema ratio: sfiorare il limite della vita, superarlo, e lasciarsi guidare da ciò che resta: la disperazione.

La scrittura di Daniele Mencarelli in Fame d’aria

La scrittura di Mencarelli è audace. Non teme di far dire a Pietro che suo figlio «rompe il cazzo»; di far sapere agli altri che Jacopo non fa nulla, non parla «si piscia e si caca addosso». Sono i dettagli a raccontarci la verità sui personaggi, perché Mencarelli sa maneggiare la materia narrativa. Come quando narra di un Pietro che si veste in sneakers e felpa – sempre la stessa da trent’anni–; un dettaglio che ci dice qualcosa sulla personalità di questo protagonista: il bisogno, nonostante sia un cinquantenne, di sentirsi ancora giovane, di fermare il tempo a un’età in cui i pensieri erano altri, come fumare una canna o andare in un alimentari mano nella mano con la mamma.

Mencarelli, poi, con i corpi ci gioca: Pietro è mingherlino, Jacopo un ragazzone; la metafora di un male, quello causato dall’autismo, così imponente da renderne a un padre difficile il controllo.

Tutti i personaggi di questa storia incarnano i molteplici sentimenti provati da Pietro. Gaia è la coscienza: «Fatti aiutare». Oliviero la consapevolezza: «Io ho fatto tutto quello che potevo». Jacopo la resa: «Soltanto, lui è come vuoto. Un corpo vuoto, dondolante».

Il susseguirsi di episodi piccoli ma memorabili svela un gioco di significati altri: è così che Mencarelli costruisce la narrazione di Fame d’aria. Come d’altronde lo è la vita: un susseguirsi di cose piccole e che accadono per un motivo più grande, un motivo che a noi non è dato capire.

 

A cura di Antonella Dilorenzo

Antonella Dilorenzo

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