Euforia di Elin Cullhed: Sylvia Plath e l’oceano dentro. Recensione
«Nella pazzia chiamai, ma non c’era nessuno che sentisse» dice la Sylvia Plath dipinta, a metà tra l’immaginario e il reale, in Euforia (Mondadori, 2022), il libro con cui Elin Cullhed si candida al Premio Strega Europeo 2022. Stavolta possiamo ascoltare la versione di Sylvia, assistere al suo riscatto, vedere un finale diverso.
Euforia di Elin Cullhed: la trama del libro
Sylvia Plath e Ted Hughes sono una delle coppie letterarie più amate della letteratura. Lei ha la luce dell’America negli occhi ed è incredibilmente bella e triste. Lui ha la nebbia inglese dentro, i privilegi dell’essere uomo e una moglie che lo ama follemente. Ma l’amore è un fiore che si sciupa velocemente, e la relazione tra Sylvia e Ted diventa un campo minato dalla rabbia e dal risentimento. Due solitudini che si sfiorano, facendosi del male. Ted se ne andrà, lasciando alla moglie il compito di bonificare tutto.
Elin Cullhed immagina un nuovo finale per la storia dei due poeti. Per Plath diventa un’occasione di riscatto: trent’anni, due bambini piccoli, ambizioni enormi e animo in fermento, l’autrice sceglie di vivere. Andare avanti, percorrere strade più o meno tortuose, cercare il successo e non dare ascolto alle mille voci che la abitano. E se fosse andata così? Viene spontaneo chiederselo, una volta finito Euforia. Non possiamo saperlo, ma Cullhed ci ha dato la possibilità di immaginarlo.
Un oceano interiore: Sylvia Plath tra scrittura, depressione e maternità
La scrittura è l’oppio con cui Sylvia Plath può sfuggire dal mondo, distorcendolo e trasformandolo in qualcosa che faccia meno male. La scrittura è per lei un modo per sopravvivere: «È la mia arma, solo così riuscirò a sopportare questi giorni: ne scriverò».
La scrittura le viene in soccorso quando si alza e il letto di Ted è vuoto e freddo: «Ecco lì lo scarico, ecco lì la salvezza… ecco lì la carta. Ardevo, piegata su me stessa senza fiato. Non guardare le parole. Non guardare finché le parole sono state scritte. Rimani soltanto nell’atto di scrivere».
Il desiderio di morire, così forte da aver avuto la meglio nella realtà, nel libro di Cullhed viene offuscato dai complimenti che Plath riceve dalla critica per le sue poesie. Ciò che conta è la scrittura, un sostituto dell’autrice stessa che la usa per essere amata: «Se non ami me, ama ciò che scrivo. E poi amami per quello» scriveva in La campana di vetro. La scrittura resta e va da sola per il mondo, sopravvivendo al tempo, ai tradimenti e al dolore, molto più dell’autrice stessa.
Sylvia incontra la morte a soli otto anni quando con il suo mantello nero le strappa via suo padre. Un senso di colpa lacerante la accompagnerà tutta la vita, un sentimento inspiegabile visto che non c’era nulla che potesse fare. Se un genitore l’ha perso, con l’altro non è stata molto fortunata. Il rapporto con la madre è conflittuale, Sylvia vuole piacerle ma non sembra mai essere abbastanza perfetta, c’è sempre un dettaglio fuori posto: «Nessuno è in grado di darmi il mio amore» pensa la Plath di Euforia dopo i primi commenti della madre, in visita in Inghilterra.
Madri e figlie
Sylvia Plath non è solo figlia ma anche madre, la maternità ha – come sempre – un doppio effetto: da una parte è palude che sommerge, dall’altra è una ringhiera a cui aggrapparsi per non cadere: «Più la mia pancia cresceva, più ero consapevole che la mia vita indietreggiava mentre quella degli altri correva in avanti». Frieda e Nicholas a volte sono di troppo, un peso ulteriore, una distrazione che le sottrae il tempo per la scrittura, il suo respiro. Contemporaneamente, però, sono anche «gli unici che danno senso alla mia vita. Mi fanno qualcosa, mi creano». Il diventare madre è una sorta di seconda nascita per Sylvia, la sua forza creatrice si combina alla forza autodistruttiva che è di casa dentro di lei.
Euforia, che ha già ottenuto il premio August – il più importante riconoscimento letterario svedese – permette al lettore di immergersi nella versione di Sylvia Plath per amare ancora di più questa figura insormontabile, morta prematuramente ma che ha continuato a vivere tramite le sue stesse poesie. Il romanzo di Elin Cullhed sembra quasi un controcanto di Tu l’hai detto di Connie Palmen, in cui Ted racconta della ricerca disperata di una lettera in cui la moglie lo condannasse o assolvesse per il suo suicidio, oltre a convincere i bambini del suo amore. Nulla. L’unico testamento lasciato al mondo è formato da capolavori in versi e in prosa. Dopo la morte della moglie si addentra in quei diari che aveva sempre e solo guardato da lontano e scopre che c’è il rischio di annegare nel dolore e nella sofferenza di Sylvia.
a cura di Maria Ducoli