L’orrore degli allevamenti intensivi. “Cose vive” è l’ultimo romanzo di Munir Hachemi

 L’orrore degli allevamenti intensivi. “Cose vive” è l’ultimo romanzo di Munir Hachemi

Siamo o non siamo, noi, delle cose vive? Munir Hachemi, scrittore spagnolo classe 1989, sostiene di sì. O forse no, non come le intendiamo noi, almeno. Cose vive (La Nuova Frontiera, 2024),  è un’opera ibrida, un memoir lucidissimo che si sfilaccia e prende la forma di un metaromanzo. Hachemi ci riporta indietro nella sua vita passata, in un’estate in cui la sua esistenza e quella dei suoi compagni di viaggio ha preso una svolta, definendo il nuovo percorso di vita personale e professionale del futuro scrittore.

Cose vive di Munir Hachemi: la trama del libro

Quattro ragazzi spagnoli decidono di passare un’estate in un altro paese per fare un po’ di esperienza di vita: una di quelle avventure che i neolaureati bohemien ritengono di dovere fare prima di affacciarsi alla vita vera, quella lavorativa, prima di  farsi risucchiare in un vortice di giornate tutte uguali. Infatti, Munir si è appena laureato e insieme ai suoi amici G, Ernesto e Alejandro raggiunge il sud della Francia per vendemmiare: quel lavoro stagionale glie lo ha rimediato un’amica della madre di Ernesto e la location è l’emblematico paesino di Aire sur l’Adour. Hachemi nella vita vuole scrivere ma sa che per scrivere bene, cose autentiche, è necessario conoscere il mondo e fare esperienze vere, intense, viverle fino in fondo e poi raccontarle come si deve.

La vendemmia però quell’anno non si fa, così i quattro devono ripiegare su dei lavoretti alternativi offerti loro dalla magnanima direttrice dell’Ats; lavori che però non hanno a che fare con uva o raccolti ma con l’orrore degli allevamenti intensivi di polli, galline e quaglie. Nessuno dei quattro ragazzi è costretto a lavorare lì, né ne ha la necessità economica; eppure, nonostante l’orrore, il trauma degli allevamenti – con vaccinazioni massive ai polli, ali spezzate e feci fino alle ginocchia – e le precarie condizioni di vitto e alloggio, decidono di rimanere lì fino alla fine della stagione, incapaci di abbandonare quel posto terribile in cui si sono ritrovati per caso

Hachemi crea quattro personalità opposte ed egualmente disperate, nella furia della calura d’agosto; G che spacca la sua chitarra dopo un portentoso concerto improvvisato, Alejandro ed Ernesto che continuano a litigare tutto il giorno per un motivo imprecisato. E intanto i compagni di lavoro muoiono e nessuno si fa domande.

L’importanza dello storytelling

Nelle prime pagine del romanzo, Hachemi riflette sull’importanza e la funzione dello storytelling. Perché raccontiamo una storia? Siamo sempre affidabili quando lo facciamo? Forse raccontiamo per classificare il mondo e ciò che ci sta intorno, oppure per sfuggire all’orrore che ci portiamo dentro?

«G direbbe che la storia che sto per raccontare è soltanto una litania che intono per non ascoltare il terrore che mi bisbiglia nell’orecchio da anni».

Il suo intento è dunque quello di depositare la memoria di un episodio e permettere al sé stesso del passato di riaffiorare. Ma non è sempre facile, non è immediato: il risultato è un alternarsi continuo della voce dei due Munir che si rincorrono fra le pagine per provare a dare un senso a quello che sta accadendo: siamo o non siamo anche noi delle cose vive? 

Lo stile di scrittura di Munir Hachemi in Cose vive

Con la sua scrittura tagliente e autentica, Hachemi ci presenta un frammento di un mondo che ci ritroviamo davanti ogni giorno, a pranzo o a cena, senza mai farci troppe domande sull’origine della coscia di pollo o della fettina che stiamo addentando; ci consegna uno spaccato di esistenza crudo, quasi fastidioso, ma necessario. Lo fa con estrema lucidità, essendo metodico e precisissimo. Poi alza le mani, sembra dire: questo è quello che io ho visto, adesso fatene quello che volete.

 

A cura di Martina Renna

Blam

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