Come fanno le volpi di Ulderico Iorillo: un racconto di oralità e misticismi nel Meridione postunitario. Recensione
Come fanno le volpi, edito da Pequod ad aprile di quest’anno, è il romanzo d’esordio di Ulderico Iorillo, laureato in Storia dell’arte medievale, collaboratore della storica rivista Flanerì e rappresentato da Oblique Studio.
Come fanno le volpi di Ulderico Iorillo: la trama del libro
Un fumo denso e soffocante si alza da una casa in fiamme in un borgo del Matese, tra i monti dell’Appennino. È il giorno in cui Aris viene al mondo, a Calena, nella zona del Sannio, in un territorio storico che abbraccia l’Abruzzo, parte della Campania fino ad arrivare al Molise – e il riferimento a Iovine, qui, è evidente. La nascita di Aris segna anche la morte della madre ed è siglata da un patto col maligno. Sin dalle prime battute è chiaro al lettore il tratto epico e soprannaturale di questo protagonista che viene cresciuto da Anna, una zingara dai poteri occulti chiamata a proteggerlo dalle forze del male e l’unica in grado di tenerlo buono. Aris cresce forte come un signore e libero come una volpe. Lui, che è il “principe dei monti”, un giorno erediterà le proprietà del padre, Michele Parrella, dal quale all’età di quattordici anni scappa via. Lo fa per sottrarsi alle violenze paterne, per colmare il vuoto lasciato dall’assenza della madre, e solo in parte riempito dalla presenza di Anna. Scappa per affrontare l’ululato del lupo che tanta paura gli fa, per crescere e poi tornare, perché è solo così che si diventa un uomo.
Tradizione fiabesca e romanzo di formazione
Nonostante l’ambientazione storica, questo è tutt’altro che un romanzo storico. È anzi un racconto ispirato alla tradizione fiabesca e tratteggiato dal misticismo; è un racconto orale che rimanda alla letteratura agro-pastorale ed è legato ai miti e alle leggende del Meridione. I topoi di questo libro sono molteplici. Fra gli altri, vi è quello della rivalità padre-figlio. Ed è proprio la necessità di Aris di affrancarsi da questo rapporto e da questo padre-padrone per affermare il proprio io che decide di fuggire via. Il viaggio è in tal senso metafora del mutamento, occasione di crescita personale, strumento necessario per comprendere il valore della perdita e quello della conquista di ciò che può definirsi casa:
“Qual è la mia casa?” […] “Il posto dove hai tutto”.
E ancora in un altro passaggio, il protagonista domanda a un pescatore:
“Perché bisogna andare per mare?”
“Per pescare, o per raggiungere posti lontani da qui”.
“Esistono altri posti al di là del mare?”
“Sì, ce ne sono molti”.
“Quindi il mare finisce?”
“No, ci sono altri posti nel mare, come questo. Tutti siamo nel mare”.
Cosicché per certi versi questo libro è sì fiaba, ma è anche un romanzo di formazione dalla forte carica evocativa.
Linguaggio e stile
All’inizio del romanzo l’autore avverte il lettore con una postilla riguardo al linguaggio utilizzato: pregno di parole dialettali appartenenti a luoghi differenti, al lessico familiare e a quello dei suoi ricordi, in cui convivono cacofonie e cantilene.
Succede così che il linguaggio sporco, pastorale di questo romanzo finisce per incastrarsi in un quadro più ampio e articolato rinvenibile negli ultimi tempi in romanzi che hanno fatto della mistione linguistica un tratto fondante delle proprie storie. Pensiamo a romanzi come Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino, vincitore della 58° edizione del Premio Campiello, o a Sangue di Giuda di Graziano Gala, oppure Io sono la bestia di Andrea Donaera.
a cura di Valeria Zangaro