Città sommersa: la memoria da recuperare di Marta Barone. Recensione
Città sommersa, pubblicato da Bompiani e scritto da Marta Barone, è uno dei candidati al Premio Strega 2020. Si tratta di un esordio che ricostruisce, parallelamente, memoria storica e memoria personale – inserendosi, così, in una scia già ben frequentata e apprezzata, soprattutto grazie ai romanzi di Annie Ernaux.
Città sommersa di Marta Barone: la trama del libro
La storia prende inizio nel momento in cui, quasi per caso, Marta rinviene degli atti giudiziari che riguardano suo padre, Leonardo Barone – o, più semplicemente, LB. Il processo a cui si riferiscono emerge solo distrattamente nei ricordi della scrittrice, gettato qui e lì tra una conversazione e l’altra. Ha a che fare con la politica, con il suo mestiere di medico, con il soccorso di un manifestante particolarmente pericoloso per le autorità. Quando Marta li legge, ormai, LB è morto da qualche tempo, divorato da un cancro. Ma il loro rapporto non ha smesso di conservare la forma di un groviglio irrisolto e confuso, pieno di contraddizioni, incomprensioni, distanze. Ed è forse proprio per questo che quelle carte sembrano avere il senso di un’epifania, per la scrittrice. Rappresentano, probabilmente, la superficie affiorante di un iceberg che potrebbe dimostrarsi decisivo.
Raccontare per fermare il tempo
La narrazione diventa, così, scavo, mezzo di indagine e ricostruzione – alla ricerca di quello che LB è stato davvero, prima che Marta lo conoscesse, quando era solo un ragazzo. È come se ci trovassimo di fronte a un puzzle sempre più complesso, che intreccia non solo le fila di una storia individuale – quella di un uomo disordinato, chiassoso e ammirato da tutti – ma anche di una collettiva: l’Italia degli anni di Piombo e dei partiti estremisti e settari. Raccontare, allora, significa mantenere un legame, nonostante la morte; dare forma e consistenza a una figura che rischia di sbiadirsi sotto il peso di una vita che continua a fluire, lasciando indietro chi non c’è più: Mi sentivo, per quanto possa sembrare assurdo, come se dovessi avere conferma che mio padre era davvero esistito.
Ma è anche un tentativo di comprensione: non solo verso le scelte categoriche che la politica imponeva e a cui, inspiegabilmente, LB sembrerebbe essersi piegato; ma anche verso tutto quello che il ragazzo potrà aver pensato, provato, vissuto.
Volevo tutta la vita, nella sua interezza concreta, volevo salvare tutto pur sapendo che non era possibile. L’unicità, la complessità irripetibile di un’onda marina tra le altre. Di un giorno dimenticato della vita di un umano; di un suo suolo battito di ciglia.
I limiti della ricostruzione
È a questo punto che il racconto inizia a diventare mezzo di circoscrizione dei limiti della scrittura: quella che si esercita a posteriori e quella che prende inizio dall’oggi. Quanto, infatti, possiamo sapere delle persone che abbiamo amato e che ci sono state accanto? Quanto è possibile sospendere il giudizio, abbandonare la propria prospettiva per immergersi nell’altro? E, soprattutto: è possibile ricostruire una memoria assoluta e veridica?
Se da una parte, quindi, la narrazione incalza sotto una domanda che si fa sempre più urgente: chi era LB?, dall’altra procede incespicando, sondando tutti i limiti del concetto di verità. Perché alla fine, forse, un vero LB non esiste, non è esistito e non esisterà. Esiste, invece, il racconto: quello che emerge dalle testimonianze degli amici e dei conoscenti; quello che Marta stessa intesse pagina dopo pagina; quello, infine, degli atti giudiziari. Si tratta di un caleidoscopio di prospettive che, inevitabilmente, Città sommersa dovrà conciliare e ordinare.
In questo lavoro certosino, fatto di ritagli e scoperte, si palesano tutti i meccanismi che sottendono il romanzo e, parallelamente, la memoria: quei tentativi, cioè, di dare coerenza anche a ciò che non lo ha avuto.
Non fidarti mai del tutto di ciò che ti diremo […] le persone alterano i fatti. Scelgono di raccontare la loro vita in un certo modo e non in un altro.
Un libro universalmente umano
È straordinario come un libro che racconta una storia tanto personale possa rivelarsi universalmente umano. A renderlo tale non è solo la voce commossa e partecipata di Marta – che, prima ancora di essere scrittrice, è soprattutto figlia e orfana. Ma è anche la forza delle domande che pone; la capacità di sondare quell’attrito, forse inestinguibile, tra ciò che è familiare e ciò che, in realtà, rimane sconosciuto. E, infine, quel silente tentativo di ricostruire sé stessi a partire dall’altro – che è, forse, il vero motivo per cui si scrivono storie.
a cura di Rebecca Molea