Casa fatta di alba di N. Scott Momaday: un canto americano. Recensione

 Casa fatta di alba di N. Scott Momaday: un canto americano. Recensione

Casa fatta di alba riceve il premio Pulitzer per la narrativa nel 1969: Momaday è il primo scrittore nativo americano a cui sia stato conferito. Sono passati più di cinquant’anni da allora e, come si legge nella prefazione all’edizione pubblicata da Edizioni Black Coffee (maggio 2022), l’autore si interroga sul destino di quest’opera che dal punto di vista letterario ha rappresentato un primo, importante passo nel percorso di scoperta e affermazione dell’identità dei popoli nativi. «L’arazzo della letteratura è intessuto di eternità» scrive, forse come un auspicio ma «non di certo una pretesa». Casa fatta di alba è un romanzo complesso, che accoglie già nel titolo – il primo verso di una preghiera navajo – una traccia del lirismo che lo caratterizza. Il mezzo secolo che è trascorso dalla sua uscita non sembra aver smorzato la potenza di una narrazione che ancora oggi si rende necessaria perché è quella di una minoranza che – e non è sempre stato facile – trova la voce per raccontare sé stessa.

 

Casa fatta di alba di N. Scott Momaday: la trama del libro

Il romanzo di N. Scott Momaday condensa in poco più di duecento pagine la storia di Abel, con un arco narrativo che copre i sette anni successivi al ritorno del protagonista dalla guerra.

È il 1945 e siamo a Walatowa, antico nome di Jemez Pueblo, nel New Mexico. Abel è appena tornato dalla guerra ed è sconvolto, ubriaco, non riconosce neanche il caro nonno Francisco che lo ha cresciuto dopo la morte della madre e del fratello. In questa prima parte, Abel non parla quasi mai; ha ritrovato la natura aspra e spettacolare del pueblo e le tradizioni della sua gente, ma sembra non riuscire a riappropriarsene né a riconoscersi in esse.

Nella prefazione al volume, Momaday scrive che la storia di Abel è quella di tanti giovani che hanno dovuto affrontare l’orrore della guerra e, soprattutto, lo strappo dalla cultura di provenienza e il conseguente difficile reinserimento sociale. Lo stesso vale anche per il protagonista, il quale, sopraffatto da una solitudine e un silenzio divenuti intollerabili, arriva a un parossismo delirante e mistico che lo oppone, finalmente, a un nemico: l’altro, «l’uomo bianco».

Nella seconda parte del romanzo ritroviamo Abel a Los Angeles, sono passati sette anni ed è ancora silenzioso: frammenti di ricordi cominciano a chiarire gli eventi passati. Apprendiamo così del processo in cui è stato coinvolto e di Milly, una donna che gli offre il proprio aiuto nel difficile tentativo di integrazione nella metropoli californiana. Il terzo capitolo è l’unico narrato in prima persona: il punto di vista che l’autore sceglie è quello di Ben Benally, divenuto amico di Abel; grazie al suo racconto si riesce a ricostruire con più precisione il progressivo disfacimento, l’alienazione e la dipendenza dall’alcol di quest’ultimo, fino alla decisione di fare ritorno a casa. Nell’ultima parte del romanzo, infatti, Abel è a Walatowa, dove ancora un dolore lo attende e assume i tratti di un sacrificio purificatore, per consentirgli, forse, di riappropriarsi infine delle proprie radici e della propria identità.

 

La scrittura di N. Scott Momaday in Casa fatta di alba

Mentre i dialoghi si rarefanno, le descrizioni, crude e liriche, sembrano caricarsi specularmente di significato, della volontà espressiva di tutto ciò che rimane non detto; riflettono un paesaggio aspro, fissato con immagini di indimenticabile precisione, e restituiscono la ciclicità, il ritmo cadenzato dei rituali – sempre assecondato dallo stile di Momaday.

Se Abel non parla, parla la natura, spesso correlativo oggettivo del suo dolore, del suo straniamento e della sua solitudine.

«Anche così, privata del cielo, l’aquila si libra nell’umana immaginazione; c’è una malizia divina in quegli occhi selvatici, un intento spietato. L’aquila spadroneggia sopra la terra, giungendo più lontano di qualsiasi altra creatura, e tutte le cose di lassù sono legate fra loro per il semplice fatto che esistono nella perfetta visione di un uccello».

In Casa fatta di alba, con il suo peculiare modo di condurre la narrazione, Momaday invita – sfida – il lettore a seguirlo dentro e fuori dal flusso di coscienza intermittente di Abel e degli altri personaggi che arricchiscono la trama, senza mai appiattire la materia a un freddo esercizio di stile.

E mentre l’autore si chiede se il suo romanzo sarà ancora letto tra cinquant’anni, entrato nell’eterno «arazzo della letteratura», oggi senz’altro possiamo godere di queste pagine da un punto di vista privilegiato: è la minoranza che racconta sé stessa, senza i compromessi delle narrazioni esterne, più o meno innocentemente, colonizzatrici.

 

A cura di Chiara Marino

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Chiara Marino

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