Campo di battaglia di Carolina Capria. Quel corpo femminile che non ha mai pace. Recensione
«Ho cominciato a sentirmi ospite all’interno del mio corpo, che non era mio davvero, altrimenti avrei potuto farne quello che volevo senza essere giudicata. Io ero semplicemente la persona che se ne doveva occupare. Come una guardiana, una custode, una governante».
Campo di battaglia: la trama del libro di Carolina Capria
Arrivi alla seconda pagina di Campo di battaglia e già sai che è il saggio giusto, quello che ti parlerà anche una volta chiuso. Carolina Capria, conosciuta anche come @lhascrittounafemmina – il profilo Instagram su cui parla di libri scritti da donne – ci ha consegnato un libro che racconta la storia di molte donne. Con una scrittura libera da qualsiasi retorica, l’autrice approfondisce la situazione di quel campo di battaglia che è il corpo femminile, un corpo che non appartiene mai fino in fondo. Il viaggio nella consapevolezza inizia con la Repubblica di Gilead, in cui Margaret Atwood ha ambientato Il racconto dell’ancella. La distopia non si allontana troppo dalla realtà, come scrive la Capria: «Riconobbi in quel mondo, all’apparenza tanto lontano, le tracce del mio». L’universo descritto dalla Atwood non è una dimensione che potrebbe esistere in un prossimo futuro, ma qualcosa che c’è già: è il nostro mondo, fortemente patriarcale, in cui il corpo è un trofeo e possederlo una disgrazia.
Dal menarca alla vecchiaia, Carolina Capria propone una riflessione a tutto tondo che abbraccia nella loro globalità le fasi della vita.
Diventare signorina: prendere parte al gioco
Le bambine sono dei soprammobili da mostrare con orgoglio una volta imbellettati, coperti da strati di tulle e luccichii. I complimenti sono sempre gli stessi, “ma che bella bambina”, “la bambina più bella del mondo”. La bellezza è la prima cosa che salta all’occhio, la prima qualità da sottolineare sempre e comunque, riducendo inevitabilmente gli aggettivi con cui una bambina potrebbe essere descritta.
Poi arriva il giorno fatidico, quello in cui diventi signorina, per usare l’espressione che più innervosisce le preadolescenti e che tutti – letteralmente – usano per sbandierare ai quattro venti il loro stadio di sviluppo.
«Le ragazzine che sanguinano erano così: fiere di essere diventate donne e di poter partecipare finalmente al grande gioco della femminilità e della seduzione per cui si allenavano da quando avevano ricevuto la prima bambola da truccare e vestire, ma incapaci di dire la parola “mestruazione”».
Da un giorno all’altro qualcosa cambia: si comincia ad avere un corpo. Non che prima fosse il contrario, ma se questo era del colore e della misura giusta allora poteva passare inosservato. Le mestruazioni ti fanno sentire grande e speciale, anche se il più delle volte sei solo una bambina che nasconde l’assorbente nella tasca dei jeans o nella manica della felpa, come se fosse un oggetto illegale, pericoloso, di cui vergognarsi.
La bellezza: un ideale a cui tendere
Dopo anni e anni in cui ci hanno fatto credere che la bellezza sia la nostra dote più preziosa, arriva il momento in cui mantenerla e preservarla diventa il nostro dovere, o almeno così ci viene imposto. Dai tonificanti, snellenti, dimagranti, alle tinte, gli smalti semipermanenti e tutti gli elisir miracolanti, le donne si rivolgono alla cosmesi per impedire al tempo di passare. A spingerle è la società, il consumismo, l’idea che la donna esista solo in funzione del suo corpo e che quando questo smetta di essere nella sua forma migliore venga meno anche il suo valore come persona.
In una società fortemente dominata dallo sguardo maschile – il cosiddetto male gaze, espressione che abbiamo imparato a conoscere – non è facile per una donna capire cosa le piaccia davvero e quali siano le sue aspirazioni autentiche. Diventa necessario – e questo Carolina Capria lo dice bene – rieducarsi alla libertà, ad occupare spazio. Lo sostiene anche la giornalista e scrittrice britannica Laurie Penny che, in Meat Market. Carne umana sul banco del capitalismo scriveva «La società deve prendere coscienza del fatto che le donne hanno fame. Non soltanto fame delle 2.500 calorie giornaliere di cui abbiamo bisogno per carburare le nostre vite intense e piene, ma fame di vita, di amore, di espansione dei nostri orizzonti, fame di politica appassionata, fame di occupare uno spazio e di vivere e agire in nome di noi stesse».
Perché qualcosa cambi, però, è necessario agire insieme. Allungare la mano per stringere quella dell’altra. Sempre più forte.
a cura di Maria Ducoli