Calafiore, il libro di Arturo Belluardo. Mangiare per non essere mangiati: l’obeso della società

 Calafiore, il libro di Arturo Belluardo. Mangiare per non essere mangiati: l’obeso della società

Chi è Calafiore? La trama del libro

Se Calafiore fosse una parte del corpo, non c’è dubbio a riguardo, sarebbe la bocca. Il romanzo di Arturo Belluardo, edito da Nutrimenti (proprio in questi giorni ha compiuto un anno dalla sua pubblicazione) narra le vicende di Pino Calafiore, un archivista bancario con l’ossessione per il cibo che, nel tentativo fallimentare di perdere peso, finisce invece per perdere tutt’altro nella sua vita.

Una narrazione su tre livelli

La narrazione si sviluppa su tre livelli: il primo è quello riguardante il racconto che fa Calafiore della sua vita, dalla sua storia d’amore con Serena fino ai suoi rapporti con i colleghi e alle vessazioni cui è costretto, passando per i tentativi fallimentari di perdere peso; il secondo livello, invece, riguarda le vicende di Marta e Federico, i sequestratori di Calafiore, e di come questi siano arrivati a diventare cannibali e a rapire la loro vittima; mentre il terzo livello è la cornice che racchiude tutte le vicende presenti, dall’avvenuto rapimento fino agli sviluppi che ne seguiranno. È una storia che si mantiene in equilibrio sul paradigma del mangiare ed essere mangiati; chi è vittima è anche carnefice e viceversa. In fondo, diciamocela tutta, non è che la storia di come funzionano i rapporti umani.

Cosa rappresenta Calafiore, davvero?

“Io sono Calafiore e ho fame. Io ho fame, ho sempre fame.”

È così che Pino Calafiore si presenta al lettore. Lo fa innanzitutto per cognome, per sottolineare una distanza, quella stessa che c’è fra lui e tutti quelli che conosce (nessuno, infatti, lo chiama per nome, neppure il padre), quella distanza posta e imposta dagli altri che lo giudicano e lo determinano per il suo aspetto. Chiamarlo per cognome è quasi un modo per depauperarlo di una certa umanità che lui non merita proprio e perché è obeso. In quella frase di presentazione c’è un secondo elemento identificativo del personaggio: Calafiore ha fame, ha sempre fame. Si tratta di un’ammissione di colpa. A giusta ragione diciamo “ammissione di colpa” giacché è così che Calafiore si sente per tutto il romanzo: è colpa sua se ha fame, se è quello che è; è colpa sua se mangiare è l’unica cosa che sa fare per davvero. Si punisce proprio ed esattamente attraverso l’atto bulimico del riempire il corpo di un vuoto lasciato dal suo passato, da chi lo giudica per quello che rappresenta e non per quello che è. Si badi bene, però, che Calafiore non è una vittima né vuole che lo si definisca tale, quando ha la possibilità diventa anche lui carnefice, cannibale, al pari dei cannibali, veri e metaforici, che trova lungo il suo cammino.

Calafiore: fotografia della società

Calafiore è anche, e soprattutto, la rappresentazione di una società che si ciba di tutto e di tutti fino ad autodivorarsi, alimentandosi di sé stessa e della vita degli altri per il solo fine del fine, vale a dire nessuno. Il denaro per il denaro. La ricchezza per la ricchezza. La crudeltà per la crudeltà. L’obesità non ha solo una dimensione psicologica ascrivibile alla psiche del personaggio, che attraverso il cibo crede di poter costruire una barriera abbastanza spessa affinché nessuno possa ferirlo, per poi scoprire invece che la distanza fisica non può davvero proteggere dalle ferite psicologiche. Ma l’obesità ha anche una dimensione sociale, è il sistema che divora qualsiasi cosa. E potremmo dirla qui anche con le parole di Giorgio Gaber in L’obeso.

[…] L’obeso è una presenza a tutto tondo
è il simbolo del mondo.
L’obeso mangia idee mangia opinioni
Computer, cellulari
Dibattiti e canzoni
Mangia il sogno dell’Europa
Le riforme, i parlamenti
Film d’azione e libri d’arte
Mangia soldi e sentimenti
E s’ingravida guardando e mangiando
Gli orrori del mondo.
[…] L’obeso è l’infinito
Di un Leopardi americano…

 

a cura di Valeria Zangaro

Valeria Zangaro

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