Almarina di Valeria Parrella: un libro per imparare a ricominciare. Recensione
Almarina – candidato al Premio Strega 2020 – è la storia di un’affinità elettiva: quella che si instaura tra la ragazza da cui prende nome il titolo, imprigionata nel carcere minorile di Nisida, e Elisabetta, la sua insegnante di matematica.
Almarina di Valeria Parrella: la trama del libro
La storia di entrambe è costellata da traumi superati a fatica: Elisabetta ha perso il marito prematuramente e vive la frustrazione di non poter diventare madre; Almarina, invece, è scappata da una vita di abusi e percosse, oltre a essere stata costretta a separarsi dal fratello. Entrambe sono, in un qualche modo, orfane e sole. Ed è, forse, proprio questo condiviso abbandono a legarle sin dal primo istante. Le due sembrano quasi riconoscersi, nella classe grigia dove si incontrano in un giorno qualsiasi: scorgono, nell’altra, la stessa fragilità sommessa.
In poco più di cento pagine, attraverso la voce di Elisabetta, scopriamo l’evolversi delle loro vite e del loro rapporto, fino al momento in cui, davanti a un giudice, tentano di dimostrare di poter essere, insieme, una famiglia.
Un libro che cura
Almarina non è solo una storia che racconta che cosa significhi insegnare all’interno di una realtà difficile, come qualcuno ha affermato. È, soprattutto, un libro lenitivo, che ha a che fare con ferite da guarire e lacune da colmare. Valeria Parrella, l’autrice del testo, ci guida all’interno di un vero e proprio percorso di razionalizzazione del trauma. E non ha paura di raccontare gli inciampi, le domande che rimangono senza risposta, i momenti di stasi. Perché affrontare il dolore significa anche questo: fermarsi per imparare a ripartire da capo. E allora va bene avere paura di non essere all’altezza di ricominciare e di innamorarsi di nuovo; è giusto accettare che la vita vada avanti, anche quando le persone che abbiamo amato non possono più vederci. E può essere sorprendentemente bello, alla fine, farsi trascinare dalla prospettiva di una ragazza come Almarina, che guarda alle cose più futili con avida meraviglia.
Una scrittura gentile
Come è necessario che sia quando si maneggia una storia fitta di crepe, perennemente sul punto di infrangersi, la scrittura che guida il racconto è delicata e gentile: accarezza le protagoniste, le guarda immergersi nella vita, le scopre nei momenti di taciuta felicità. È capace di essere, allo stesso tempo, graffiante e speranzosa. Perché Nisida non è solo l’esito desolante di una generazione povera e abbandonata a sé stessa, ma è anche un simbolo: quello di un ultimo avamposto che lotta, giornalmente, per offrire un’altra possibilità.
Chi pensa che Nisida sia un’aberrazione non conosce la città, e chi pensa che la città sia un’aberrazione non conosce il Paese. È per questo che quando arrivano a Nisida i nostri ragazzi si straniano: vedono da vicino, per la prima volta, adulti diversi da quelli che li hanno partoriti.
È inevitabile scorgere, proprio a partire da questo luogo tanto contraddittorio, le inevitabili sfasature che regolano il rapporto tra la storia del singolo e il sistema che lo accoglie. Com’è possibile, infatti, conciliare le variabili di ogni vita umana con la legge, le istituzioni, le teorie? Quanto di noi viene perso ogni qual volta varchiamo la soglia di un carcere o di un tribunale?
Tutto il tuo destino, la tua vita, come saranno i giorni e quante forze avrai è opinabile, dell’opinione di un altro, della forma che la cosa avrà assunto nella sua testa, delle variabili che non hai saputo spiegare o che la procedura non permetteva di esplicitare. […] Perché ci vuole un sacco di tempo, o una poesia perfetta, per dire davvero le cose come stanno.
Arrivati alla fine del testo, forse non avremo soluzioni da dare a queste domande. Ma avremo, comunque, scoperto una storia coraggiosissima: quella di due vite che si rialzano e si reinventano, anche se a tentoni, insieme.
a cura di Rebecca Molea