Adelaida: estratto dal libro di Adrián N. Bravi, candidato al premio Strega 2024
Adrián N. Bravi è uno scrittore italo-argentino nato e cresciuto a Buenos Aires e trasferitosi in Italia negli anni Ottanta. Ora lavora anche come bibliotecario all’università di Macerata. Adelaida (Nutrimenti, 2024) è nella dozzina dei libri candidati al premio Strega 2024 e proposto da Romana Petri con la seguente motivazione: «[…] La scrittura mirabile di Bravi è come uno specchio. Lui scrive guardandoci dentro, ma non trova sé stesso. Flaubertianamente indentificato con Adelaida è lei che fa muovere, rivivere, soffrire, ma avere ancora qualche fondamentale, fugace appuntamento di felicità nell’ultima parte della sua vita solitaria. È da quello specchio che Bravi si accorge, nei funerali di Adelaida, di come sia inutile, a volte, chiudere gli occhi dei morti. Chi l’ha detto che non possano vederci? Un’opera di rara bellezza, molto più di una biografia. Bravi, con Adelaida, ci offre in dono la vita di una donna unica, che nessun lettore potrà mai dimenticare».
Adelaida di Adrián N. Bravi: la trama del libro
Adelaida Gigli era una donna straordinaria dell’Argentina del secolo scorso, conosciuta per essere un’artista e una madre. Ma anche per il suo atteggiamento vivace e irriverente: nella sua casa ospitava armi e proteggeva oppositori, sfidava il potere senza paura, infrangeva le norme sociali. La sua espressività e autenticità l’hanno portata a confrontarsi con la censura, la dittatura e a subire perdite personali, pagando un alto prezzo per la sua ribellione. Adrián N. Bravi ci offre un ritratto intenso e vitale di questa figura indimenticabile, rendendo Adelaida un libro essenziale da leggere.
Adelaida di Adrián N. Bravi: un estratto
Questa storia inizia il 29 agosto 1976 davanti all’arco dello zoo di Buenos Aires, nei pressi di Plaza Italia, dove si innalza il grande monumento equestre di Garibaldi.
È una giornata d’inverno, umida e fredda. Sotto l’arco, una riproduzione, in versione ridotta, dell’antico arco trionfale di Tito a Roma, c’è un venditore di palloncini con il suo folto grappolo in mano, tutto colorato.
Le strade sono affollate di macchine e di autobus provenienti da Avenida General Las Heras e diretti ad Avenida Sarmiento. Poco distante, a un angolo di Plaza Italia (che un tempo, oltre un secolo fa, era chiamata Plazoleta de los Portones), si trova una colonna di marmo originale del Foro Romano donata nel 1955 dal Comune di Roma, forse la più antica reliquia che esiste in Argentina.
Lungo General Las Heras cammina una ragazza con i capelli a caschetto e un leggero sorriso sulle labbra, dovuto più al suo carattere che alle circostanze. È da circa venti giorni che non esce di casa, ha trascorso questo tempo controllando, dietro una tenda appena scostata, il formicolante viavai della strada. Di tanto in tanto ha preso in mano il diario che sta scrivendo per sua figlia e ha disegnato tra le sue pagine un animaletto, un gatto con baffi lunghi o un coniglio con lo sguardo preoccupato. Ha ventidue anni e quel giorno è uscita con l’intenzione di fare un giro per le strade della città. Le piace andare a vedere gli animali nei pomeriggi freddi: i pappagalli colorati, le scimmie, le giraffe, ma forse quelli che più l’attraggono sono gli elefanti, perché, come recita la canzone del flaco Spinetta, in un album che lei ama ascoltare da quando è uscito, sei anni prima, sanno morire in pace e dimenticare la propria solitudine.
Sa che quella domenica d’agosto allo zoo ci saranno anche alcuni dei suoi compagni, quelli che operano nella zona nord della città. Non è una riunione operativa, si trovano lì per confrontarsi, per condividere lo stesso dolore e per fare il punto su quello che sta succedendo attorno a loro.
Trova un taxi in via Paraná, uno di quei taxi neri e gialli che fanno parte del paesaggio urbano, e si fa lasciare alla fine di via Lafinur. Appena imbocca General Las Heras comincia a guardarsi intorno, con il sospetto di essere seguita. Non ne è certa ma si aspetta, per meglio dire auspica, che una volta giunta davanti allo zoo quegli uomini che da un bel tratto hanno iniziato a camminarle dietro possano dileguarsi. Ha l’impressione di avere sempre addosso lo sguardo degli altri; sarebbe bello, pensa, poter diventare all’occorrenza incorporea come il dottor Jack Griffin nel film L’uomo invisibile, che ha visto assieme al suo compagno Carlos Goldenberg (per lei, Carlitos).
In braccio tiene la sua bambina di nove mesi, Inés, nata alla fine di novembre del 1975. Nel diario che da un anno ha cominciato a scrivere per la piccola, quasi sapendo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, la chiama con i vezzeggiativi più strani e affettuosi. È una bambina con le guance rosse e due piccoli incisivi che iniziano a spuntarle in bocca.
Mini, così chiamano la mamma i parenti e gli amici, l’ha coperta bene, con un cappellino a uncinetto e un fiocco in cima. Mentre continua a camminare, nota una Ford Falcon grigia che le si ferma a fianco; ne scendono alcuni uomini con gli occhiali scuri, simili a quelli che immagina la stiano seguendo. Dunque attraversa l’arco dello zoo, al cui vertice sono incise le parole: Jardín Zoológico Municipal. Si fa spazio tra la gente, sebbene non sia sicura che quegli uomini siano lì proprio per lei. Le vie del parco sono affollate di persone che passeggiano. Deve seminare quegli uomini, chiunque essi siano. Sono entrati anche loro nello zoo, sia quelli che le camminavano dietro che gli altri scesi dalla Ford Falcon. Si avvia lungo il viale che attraversa il laghetto delle anatre e prosegue verso l’interno del parco. Conosce bene il posto, il padiglione dei pappagalli in stile moresco, il tempio di Vesta dove le mamme possono andare ad allattare i figli, la reggia degli orsi: sa quale direzione prendere.
Ha pensato spesso in passato alla voce del coro, alla fine delle Baccanti di Euripide, autore che ha imparato ad amare precocemente e che legge in una traduzione ottocentesca: Molti eventi inattesi portano a compimento gli dei: e quello che ci aspettavamo non è accaduto, mentre il dio ha trovato un varco per l’imprevedibile. Questa chiusa sulla mutevolezza inaspettata della sorte umana non si trova solo alla fine delle Baccanti, ma ritorna identica in altre tragedie euripidee: Andromaca, Alcesti, Medea, Elena. È, insomma, una formula conclusiva che contiene una riflessione sulla dea della sorte, Tyche. Ma Mini non immagina che proprio quella domenica grigia d’agosto un dio le aprirà la via di una decisione che non ha mai contemplato, perché l’inatteso arriva d’improvviso, senza compassione.
Adesso sì, ha la certezza che quegli uomini siano lì per lei, qualcuno ha cantato che sarebbe andata a vedere gli animali o semplicemente attendevano da giorni sotto casa sua e l’hanno pedinata.
Mentre inizia a correre verso il palazzo indiano degli elefanti incontra una coppia di anziani che cammina spensierata con una mappa dello zoo in mano. Non sa chi sono, non sa nemmeno se si può fidare di loro, ma in quel momento è l’unico appiglio che le rimane prima di varcare la soglia dell’imprevedibile.
Mini si ferma davanti alla coppia quasi a ostacolarne il passo, li guarda fisso, prima uno, dopo l’altra, con occhi disperati pone la bimba tra le braccia della donna e si lancia nella corsa. Fa giusto in tempo a dire qualcosa che gli anziani, in quell’istante, non comprendono. Forse ha chiesto loro di prendersene cura o di portarla fuori dal paese, oppure, semplicemente, ha rivelato loro il nome della piccola. Avvertono, però, che nello sguardo di quella ragazza c’è una supplica, la disperazione di una madre, l’indicibile. Gli anziani abbracciano la bambina giusto in tempo per vedere sua madre scomparire tra la folla.
Mini scappa e dietro di lei una decina di agenti in borghese, alcuni vestiti bene, con mocassini e cravatta.
Quell’atto di amore estremo è stato l’ultimo gesto volontario di Mini; da allora non si è saputo più nulla di lei, è scomparsa, inghiottita dalla sorte.
Un’altra versione dei fatti molto plausibile vuole che Mini, dopo aver attraversato il laghetto con le anatre, accortasi che i suoi carnefici la stavano inseguendo, abbia lasciato la piccola Inés su un prato, seduta per terra e dopo averla baciata per l’ultima volta sia andata incontro ai militari per arrendersi. Poi, una coppia di anziani che ha visto la scena è andata a raccoglierla.
In un modo o nell’altro, ora, senza capire, la piccola Inés si trova tra le braccia di due sconosciuti che si avviano verso l’uscita. Guarda il cielo con i suoi grandi occhi celesti e non sa che l’attende una nuova trama che le Moire hanno iniziato a tessere per lei. Questa volta il dio dell’inatteso le fa attraversare l’arco dello zoo in senso opposto e di sua madre non avrà più notizie.