Misericordia è il racconto di Marco Peluso: un figlio fa i conti con il ricordo del padre, ma non c’è espiazione per nessuno
Mia madre non si rassegna all’idea che mi hanno mozzato un polmone, tagliato di netto per graziarmi dal destino di mio padre, ucciso da sessanta sigarette al giorno. Quando entrava in casa, prima dei suoi passi lo si sentiva tossire, proemio di urla e insulti scagliati su mia madre paralizzata ai fornelli, consacrata a un martirio che la stava annientando.
«Ma che sfaccimma, fatico tutto il giorno e manco ’nu cazzo ’e piatto a tavola posso trovare!»
La sua vita è stata il mio svezzamento all’odio. Sono riuscito a guardarlo in faccia solo quando l’ho visto arenato in un letto, tramutato in uno scheletro coperto da una velina di pelle grigia; ogni brandello della sua brutalità annientato, gli occhi sigillati in una resa perpetua.
Avrei voluto ridere ma le lacrime di mia madre, accasciata su quel cadavere, me lo impedivano. Non capivo il suo dolore e neanche lo comprendo ora nel vederla affannarsi a salire le scale di una stazione, carica di buste, gli occhi infossati che cercano tra la folla un figlio da cui otterrà solo indifferenza.
Sono mesi che lo fa, da quando mi hanno dimesso dall’ospedale. Si ferma in cima alle scale, boccheggia e mi fissa con gli occhi segnati dalla stanchezza, le borse che regge tra le mani sembrano spezzarle le braccia.
Abbasso la testa, ho l’impressione che tutti mi osservino; e lo sguardo doloroso di mia madre che non lascia tregua.
«Come ti senti, hai trovato qualche lavoro?»
Il polmone freme, schiaccio un palmo sul fianco destro per fermarlo, ma mio padre continua a picchiare i pugni per uscire.
Riesco ad abortire la sua rinascita e resto zitto, senza ascoltare mia madre elencare le cose che ha portato. Afferro la sua elemosina e vado via, non un bacio né un abbraccio, me la lascio alle spalle e arranco tra la folla carico della sua carità. Arrivato a casa, lascio cadere le buste a terra e crollo sul divano, annaspando l’aria e stringendomi il petto con una mano. Il pc acceso mi ricorda che dovrei scrivere, le librerie mostrano tomi dimenticati da mesi e gli articoli di giornali alle pareti sono solo foto mortuarie.
E la voce di mio padre che si gonfia nel petto.
«’O scrittore ’e ’stu cazzo! E già, mo’ ’e libri ti danno da mangiare.»
Serro le palpebre e affondo la testa nel guanciale sporco di cenere, respiro la puzza di mio padre, la sua tosse si mischia alla mia. Lo rivedo abbandonato su una lettiga, spaventato come quando ho messo piede nel reparto di chirurgia toracica e un’infermiera mi ha costretto a spogliarmi.
«Su, in fretta.»
Un attimo dopo un portantino annoiato mi ha portato via su una lettiga, coperto da una mantella trasparente. Prima che tutto diventasse buio ricordo solo gli occhi di una dottoressa, avvolta da un fascio di luce.
«Cerchi di stare calmo.»
E poi dritto in uno scantinato colmo di persone allettate, immobili e dagli occhi chiusi. Neppure respiravano. C’era solo un silenzio di pietra. Non sapevo neanche che ore fossero, avevo solo sete, ma nessuno badava a me.
Dopo un giorno mi hanno riportato nel reparto, urlavo come un bambino appena nato: come mio padre.
«Ma che sfaccimma, mi volete dare qualcosa?»
Lo sentivo agitarsi nel petto, gorgogliare nella gola assieme al sangue, una macchia sbiadita identica a quella vista dieci anni prima seduta al tavolo in cucina, il volto incavato e lo sguardo fisso su conti da pagare. Non urlava ma neanche piangeva. Ora che ci penso l’ho visto piangere una sola volta e da ubriaco, quando gli avevo sputato in faccia che avrei voluto vederlo morto.
Alla fine sono stato esaudito.
Adesso le bottiglie abbandonate sulla scrivania sono ceri alla sua memoria, preghiere che mi accomunano a lui, odori che sono parte di me e di lui, come il tanfo di vino.
Scivolo dal divano, ancora tossendo. Raccatto le buste da terra e le trascinò in cucina, dalle cortine calate filamenti di luce cadono sui piatti ammucchiati nel lavello. Le poso sui fornelli e comincio a frugarci dentro, frenetico come un insetto affamato. C’è della carne, il pollo con le patate, la boscaiola e della mozzarella.
Ne afferro una e la trancio con un morso, sento i denti affondare nel polmone, ma continuo a masticare; il latte mi cola sul mento e la voce di mio padre batte al petto. Avverto in bocca il suo sapore ma non smetto di masticare.
«E già, mo’ ’e libri ti danno da mangiare.»
Mia madre mi scrive di continuo, anche se non abbiamo nulla da dirci.
«Novità, hai trovato qualche lavoro?»
Vorrei che morisse prima di me solo per risparmiarle di impazzire. Se mi vedesse ora, il suo cervello esploderebbe. Siedo davanti al pc, nudo, sul monitor scorre un porno e la tavola è piena di bottiglie vuote. I mozziconi nel posacenere aumentano di giorno in giorno, come la mia tosse; e questo senso di oppressione al torace che mi costringe a schiacciare una mano sul fianco. Il polmone vuole schizzare via, è una creatura viva: mio padre, capace di diramarsi tutt’intorno a quel che resta della mia vita e delle mie cose, simulacri di morte.
È lì non appena tossisco, mi fiata sul collo tutte le volte che di notte provo a scrivere, e resto ore a fissare la pagina, i caratteri sono minuscoli insetti agonizzanti. Le librerie esplodono, ondate di pagine si inceneriscono in aria assieme ai ritagli di giornale: sono solo menzogne, e la risata di mio padre me lo ricorda, si mischia alla mia tosse.
«’O scrittore ’e ’stu cazzo!»
Premo un palmo contro al fianco perché lui non esca, ho paura che stia tornando per uccidermi. Risale la gola come uno scarafaggio, e per quanto vino beva non riesco ad annegarlo; il fumo non lo soffoca, lo fortifica.
Mio padre ha il sapore del sangue.
Ho finito la spesa donata da mia madre; le credenze sono vuote ma a lei ho detto che sto bene.
Non esco di casa da giorni. Nudo, coperto solo di cenere, siedo davanti al pc e fisso un foglio macchiato da inutili caratteri, un testamento che non riesco più a comporre. Neanche capisco quale delirio mi possegga, respiro solo fumo e non bacio altro che una bottiglia. Tanto di me non resterà nulla, sparirò come mio padre, annientato da una vita passata in fabbrica.
Vorrei confessarlo a mia madre, chiederle perdono. Lei continua a scrivermi ma neppure le rispondo.
Cosa dovrei dirle, che sto per morire?
Ho bruciato gli articoli che parlano dei miei libri. Ho bruciato i libri. Continuo a tossire, il sangue mi cola dalla bocca e scivola sulla tastiera, rigagnoli cremisi strisciano sul pavimento fino a raggrumarsi e a dare forma a mio padre, rannicchiato in un angolo: ha gli occhi spalancati su di me e sta zitto. Da fuori non giunge alcun rumore, c’è solo la mia tosse e il telefono che continua a trillare: mia madre che non si rassegna a lasciarmi morire.
Con una manata scaglio a terra il portatile e balzo in piedi, la mano sul torace e la tosse che mi soffoca. Briciole di plastica e vetro piovono al suolo assieme alla mia vita, e questo pezzo di carne che continua a ruggirmi nel petto. Non riesco a fermarlo. Si agita e geme come un cane investito, la mia pelle trasuda sangue a ogni colpo di tosse e quel telefono che non smette di gridare, mia madre che si dispera perché io viva.
Uno squarcio nel petto mi stronca il respiro e crollo in ginocchio, gli occhi colmi di terrore fissi in quelli di mio padre. Non sento più neppure la tosse, solo le urla di mia madre.
Cado a terra e chiudo gli occhi, con questo disgustoso sapore ferroso in bocca. Vorrei solo sputarlo via e dimenticare. Dormire. Dormire come facevo da bambino, abbracciato a mia madre. Stringerla e dirle che mi dispiace.
Marco Peluso