Quattro bambini di nessuno e un messaggio da consegnare. Il racconto “I bambini” di Elena Molisani

 Quattro bambini di nessuno e un messaggio da consegnare. Il racconto “I bambini” di Elena Molisani

Illustrazione di Alessandra Berenato

La prima volta li ho visti di notte. Correvano nella corte interna del palazzo e poi su e giù dallo scalone, erano bianco-latte, resi fluorescenti dalla luce della luna. Erano quattro, e quattro sono rimasti. Due maschi, due femmine.

La pioggia era cessata e l’aria sapeva di funghi e io non dormivo, pensavo a mamma, a quando si lamentava dell’insonnia. «Neanche l’Halcion mi serve più.» Neanche a me.

Fissavo i quattro dalla finestra della cucina, il mio posto preferito della casa. Da lì posso guardare lo scalone e i corridoi interni, l’incedere, sul marmo nero e bianco, dei pochi condomini rimasti, fingendo di non guardare, impegnato a lavare i piatti e a tagliare sedano cipolle carote per il soffritto, perché il ragù si fa così, niente alloro, niente rosmarino, solo trito di manzo, ché il maiale è grasso, così diceva mamma e anche Dirce è d’accordo.

Le due femmine si somigliano, forse sono sorelle, o forse sono solo amiche del cuore, e allora poi si finisce per somigliarsi.

Corrono tenendosi per mano, poi si fermano, mi fissano, una si avvicina all’orecchio dell’altra e mentre lo fa si scherma la bocca. Ma da lì non escono parole, lo so, perché qui in cucina il loro suono arriva, si propaga nella stanza, va alle pareti ed è un soffio, come quello dei gatti. Hanno vestiti lisi, di un grigio polveroso. Sono le cospiratrici. I due maschi sono diversi: c’è Capelli-ricci che ha l’aria famelica: me lo immagino mangiare veloce e tanto, perché non si sa quando si mangerà di nuovo, sempre guardingo, con gli occhi feroci. Capelli-lisci invece ha la scriminatura a sinistra, le guance piene e le occhiaie viola dei bambini sempre malati. Tra loro non parlano, non credo ne siano capaci. Fanno sibili e soffi e ridono, ma incerti, come se stessero sperimentando un suono nuovo. È una sorta di trillo ripetuto, che pare sì una risata, ma che non trova corrispondenza nei loro volti.

Non sono di nessuno, perché qui nel palazzo, di famiglie con figli, non ce ne sono. Non ci sono quasi più nemmeno famiglie. Solo qualche coppia di anziani, Dirce e io. Il palazzo io non lo posso lasciare. Ci sono cresciuto, questa è casa di mamma. Questo è quel che rimane di mamma, e come si fa a disfarsene, a vendere. «È un palazzo vecchio, ogni giorno ha un guaio nuovo e non ci sta nemmeno l’ascensore, trovati un bilocale, con i muri dritti e i pavimenti che non ballano quando ci cammini; che ci rimani a fare qua con quattro vecchi? Te lo preparo un caffè?» Dirce dice così, ma in realtà se me ne andassi soffrirebbe molto, un altro pezzo di vita che t’abbandona, un’altra abitudine che scompare, lei sempre più sola, accerchiata dal nuovo, e tutto il passato che se ne fugge via, o nella tomba o in un bilocale lontano dalla città vecchia. Io il passato non lo tradisco e Dirce lo sa. Però anche questa è un’abitudine, dirmi che me ne devo andare per stare meglio e poi preparare il caffè.

Dei bambini non le ho parlato. Le sono affezionato, mi piace portarle la spesa, leggerle il giornale perché ormai ci vede poco, farle compagnia, perché da vecchi la solitudine è una condanna, ma non si può parlare di tutto, neanche con un’amica. L’unica persona al mondo con cui non si possono avere segreti è la propria madre. D’altro canto, a Dirce non ho nemmeno mostrato la muffa quando è venuta qui a chiedermi se anche io avevo problemi con l’acqua calda. Non l’ha vista, anche se ho acceso tutte le luci della cucina, pure i faretti sopra i pensili che tengo sempre spenti, perché bisogna risparmiare, una donna sola con un figlio a carico lo sa, mamma lo sapeva. È fiorita vicino alla finestra, piccole macchie grigio scuro che crescono ogni giorno, impercettibilmente, e che di notte emanano un bagliore verdastro. Cerco di indovinarne la forma futura, perché si allargano seguendo un disegno non casuale, ma per ora non riesco a capire. Mi bruciano gli occhi, vorrei dormire; forse per un minuto o due ci sono riuscito e questo canto senza parole che esce dai muri è un sogno, una tonalità minore che è un ricordo del mio cervello e in realtà non esce dai muri ma sta dentro di me. Ma la muffa pulsa e i bambini sono davanti alla finestra e mi fissano con gli occhi spenti e le labbra serrate.

 

Mi muovo in cucina a luci spente. Il bianco della luna illumina l’androne, penetra attraverso il lucernario, si riflette sul marmo bianco e nero dello scalone che diventa lucido e brillante, una pista da ballo per quattro bambini danzatori che si muovono in tondo, attorno a un falò, «facciamo che era un fuoco» direbbero, se solo sapessero parlare, se solo ci fosse il fuoco. Si stringono le mani e poi spezzano il cerchio per mettersi in fila davanti alla mia finestra. I muri della casa non cantano più, ora; gorgogliano, forse perché la pioggia ha ripreso a cadere a gocce grosse e fitte o forse perché i bambini, tutti e quattro contemporaneamente, spalancano la bocca fissandomi con gli occhi vuoti e dalle loro gole spingono verso di me, attraverso le pareti, un mormorio basso incessante che batte dall’interno delle mie orecchie e scava e si arrampica sui muri, striscia sul fornello, avanza verso il sifone del lavello e si tuffa lì, nel nero sconosciuto, e ne fa uscire il ringhio di un gatto infuriato, pronto a cavarmi gli occhi.

Apro il rubinetto per far scorrere l’acqua, niente succhi niente schifezze gassate dice mamma solo l’acqua disseta e fa passare anche il singhiozzo dopo che hai pianto tanto disperato esagerato cosa c’è da piangere capricci sempre solo capricci mi farai morire di dolore solo delusioni alla tua mamma a me che ti ho messo al mondo ho rinunciato a tutto ho rischiato di morire per te una soddisfazione ogni tanto la puoi dare ogni tanto guardati a trent’anni ancora qui cosa hai combinato nella vita vita è vita questa solo sacrifici mai una soddisfazione ogni tanto tanto mai.

Allungo la mano verso la mia tazza, la tazza di mamma con le rose e il bordo d’oro, mi piace bere l’acqua dalla tazza di porcellana col bordo d’oro, bisogna fare attenzione ma io ho le mani delicate le dita precise e avrei potuto suonare il piano con queste dita affusolate e queste mani che hanno una macchia sul dorso, una piccola macchia grigio scuro che cresce impercettibilmente, emana un bagliore verdastro, cerco di indovinarne la forma futura, perché si allarga seguendo un disegno non casuale, il profilo di piccole dita, di un piccolo palmo, l’impronta della mano di un bambino come quando all’asilo i lavoretti per la mamma, una bella impronta colorata della tua manina per la mamma, un’impronta grigio scuro (sulla tua mano sinistra) che brilla alla luce della luna.

Bevo e nelle orecchie ho uno scalpiccio di passi, brevi e frettolosi, di piedini nudi sul marmo del corridoio, sempre lucido metti le pattine togli le scarpe ho appena tirato a cera, e la porta d’ingresso si chiude, girano le chiavi nella toppa, la porta è chiusa a doppia mandata.

I bambini sono entrati.

Elena Molisani

Blam

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