Voi lo comprereste un orecchio nero umano? “Orecchio” è il racconto bizzarro di Luigi Russo
Ci stava questo tizio, questo militare, zoppo a un piede, un omone alto alto, che voleva vendermi un orecchio. Da quando mia moglie m’aveva rifilato il benservito, mi trastullavo ciabattando tra sofà e dispensa, a sbronzarmi di whisky, un cicchetto via l’altro, così da settimane, e quel pomeriggio avevo propeso per un’allucinazione. Invece quello zoppo d’un veterano non giocava mica, voleva prendessi in dono quel suo orecchio nero. L’orecchio d’un negro. Roba da matti!
«Accomodati» gli ho detto. «Ci conosciamo?» M’ha detto che era il mio nuovo vicino, che mi abitava cioè dirimpetto. «Caspita!» ho detto. Avevo un nuovo vicino, e neanche lo sapevo. Ho sprimacciato il paio di cuscini migliori che ho, poi gli ho fatto segno che si sedesse sul divano.
«Fa’ come fossi a casa.»
«Sì!» ha fatto lui. «Grazie.»
Ho messo il bricco dell’acqua calda sul fuoco. «Caffè» ho proposto. «Ti va?» Ha annuito, s’è seduto, e non appena giù, ha preso a massaggiarsi la coscia claudicante. Portava dei jeans tutti stracciati. A dirla tutta, pareva stracciato da capo a piedi, capelli inclusi. Ho fatto cenno alla gamba.
«Tutto ok?»
«Sisì» ha fatto.
In Iraq, una mina, mi ha detto. Poi coi pugni stretti ha mimato il gesto come di uno scoppio. Mi ha raccontato di essere stato di stanza a Nassiriya, che era il principale d’un contingente, grado ufficiali, e che stava pappa e ciccia con gli americani e tutta quella roba. M’ha confidato roba di guerra, insomma, parecchio avvincente, storie di cecchini, missili e granate. «Perbacco,» gli ho fatto «figo!» Gli ho porto la tazzina fumante, l’ha sollevata con quelle manone, e m’ha ringraziato ancora: con quella vocina da efebo, che m’è apparsa tutto fuorché marziale. Poi ho lisciato la pelle della poltrona, un’aggiustata spiccia, e c’ho pigiato dentro il didietro. Lui mi stava di fronte. Prima però ho avuto premura di socchiudere le tendine, affinché schermassero il sole, parecchio alto a quell’ora, per zittire le malelingue del vicinato, lì sempre a srotolarla, la linguaccia, bla bla bla, a menarla che sia mio primo proposito lasciare che la canicola si attorcigli al collo degli ospiti. «Laggiù è l’inferno» ha ripreso lui. «Cammini tra sangue e capocce sgozzate. L’iradiddio» ha detto. Ha detto così. Io ho stirato un sorrisetto. «Quaggiù siamo salvi da un po’» ho fatto ridendo. «E poi, per assurdo, col traffico di Roma, dove trovi spazio per le capocce?» Ha annuito e fatto un sorrisetto, simmetrico. Poi ha detto: «Ma sangue che cola, sì». Ha poggiato la tazzina, e s’è messo la capocchia dell’indice sul cuore. «Questo sanguina un continuo.»
L’ho snobbato. Non ero dell’umore. Il mio sanguinava per davvero. «Un cicchettino?» ho chiesto. «Ho un Chivas Regal da paura.» Ho aggiunto: «Col caffè è la morte sua.» La testa, su e giù. «Certo, sì.» Poi ha ripetuto ancora: «Sisì.» «Caspita, amico. E bravo,» ho detto «questo sì, che è parlare!» Gliene ho versato un dito e ho aggiunto un cubetto di ghiaccio. Poi ne ho preso uno pure io, senza ghiaccio però. A me piace rude. Son fatto così, io: tanto più è rude, quanto più lume mi brilla in testa. Il veterano ha fatto vorticare il bicchiere, poi c’ha tuffato le narici dentro. Gli ho detto: «Vuoi vedere che il mio vicino se ne intende più di me?». Ha riso così forte che l’ho visto molleggiarsi sulla coscia zoppa. Gesù, ho pensato, non è che gli piglia un crampo? E mi son chiesto se gli pigliano i crampi, agli zoppi. Chissà, mi son detto. No, niente crampo. Ho spedito il sorso giù nello stomaco. Bruciava un accidenti. Ho meditato, quota cinque ho creduto, più probabile quota sette, e ho stretto il palmo sul fegato, e povero vecchio fegato pensavo, ma tanto tu già stai in diecimila pezzi, umiliato e offeso. Intanto lo zoppo s’era rizzato sugli attenti, un vezzo ancestrale del suo vecchio mondo, ha detto ammazza squisito, e s’è cacciato dalla saccoccia una specie di recipiente sottovuoto, quello in cui si stipano le acciughe. Ha detto: «Per la nostalgia dell’Iraq». Un balzano. «Per l’amor di Dio» ho gridato. E gridando, ho battuto a suon di natiche tre volte sulla poltrona. «Un caro ricordino» ha detto. Poi ha continuato: «Al legittimo proprietario,» e additava il recipiente, «a quel negro mussulmano, la via per l’altro mondo, gliel’ho spianata io. L’ho bucato dritto qui.» S’è appiccicato l’indice dove il naso s’attacca alla fronte. Poi ha ripuntato l’aggeggio e ha aggiunto: «Souvenir».
Eccolo lì, l’orecchio negro: mozzato, sottovuoto. E una strisciolina di sangue rappreso lungo tutta la frontiera dello squarcio. Era gigante poi. E mi son chiesto come facesse a tenerlo in quel recipiente così minuscolo. Roba da pazzi, signori. «È tuo» m’ha detto. «Son qui apposta.» Ha sfarfallato il dito, dopo avermelo puntato in faccia. «Offerta speciale. È tuo per soli 20 euro.» Ho guardato il fondo del recipiente, in stato catatonico. Poi ho preso a girare il cranio come fanno i gufi nelle notti più tetre. Sofà, cucina. Io e lui. Gamba mia, gamba sua. Sana, zoppa. Ho sgranato gli occhi. Recipiente. Orecchio. Orecchio nero. Mio Dio. «Non saprei.» Grattatina sul dorso del capo. «Ci penso» ho detto. Ha riso. «E devi pure pensarci?» Altro sogghigno, più lugubre. «20 euro, amico.» Poi ha aggiunto, in tono solenne: «Questo? Un prezioso cimelio di guerra».
Bofonchiava non saprei cosa, poi ha spalancato forte le braccia, un povero Cristo, e insisteva nel puntare quell’orecchio nero, come per dire: davvero stai rifiutando un orecchio? Sei svitato, amico? Ti do un orecchio e tu hai pure da pensarci? S’è portato il cicchetto alle labbra, finché non l’ha riposto sul tavolino, il tin tin dei vetri che si infrangono, poi s’è lisciato la barbetta e s’è strusciato la bocca col dorso. A bruciapelo, m’ha chiesto: «Il bagno?». Effetto alcolico…
Gli faccio cenno in coda al corridoio. «In fondo, l’ultima a sinistra» ho detto. Bubi, amore mio, guarda, ti compro un orecchio, un orecchio nero. Per te, solo per te. Io bevo troppo? Smetto, amore. Promesso. Stavolta sì, per sempre. No no, dico sul serio. Perché proprio nero, dici?
S’è trascinato verso il cesso, e quella coscia zoppa pareva un abominio. La serratura ha fatto clic. Poi mi son giunti gli echi della tavoletta della tazza che sbatteva. «Sentito?» ho fatto all’orecchio nero. «Sta pisciando.» Mi son rizzato in piedi, le cosce me le sentivo stanche. Come se avessi vinto la maratona di New York. Sembrava un po’ floscio, al tatto. L’ho tirato fuori dal sottovuoto per il lobo. L’ho rigirato nei palmi, quel coso al caffè. E nel frattempo che lo lisciavo, m’è parso d’esser meno pazzo. E mi sentivo pieno, felice, come immerso in un fluido tiepido. Ho pensato: sei ancora nel fiore, altro che età! Ho ficcato il mignolo destro nel buco e ho premuto. Gesù, gli smollo il timpano. Spiccava più di tutto, quella sua indolente mollezza. Qualche ciuffetto mi si stagliava sul mignoletto. L’interno era freddo. Si può dire che bruciasse dal freddo, quel coso. E poi, c’era il cerume. Tanti granelli. E c’era un flusso di magia che usciva da quel dannatissimo orecchio negro. L’ho portato al mio orecchio. Orecchio mio, orecchio suo. Orecchio bianco, orecchio nero. E ho creduto d’esser stato catturato dalla follia. Una voce, dall’orecchio. Virile, stentorea ma rotonda. Da jazzista. Voce da negro. Ha detto: «Tornerà…». O Cristo, ha parlato. «Ahhh!» ho fatto. Per il terrore stava per scivolarmi, finché non l’ho ripigliato al volo. Ho strizzato gli occhi per indurire la concentrazione. Nell’abisso di quel timpano, nei recessi di quel fottuto buco, una voce aveva parlato. Tornerà, tornerà e tornerà ad amarti. Bubi ci sarà. Tornerà. La mia Bubi tornerà, ho ripetuto. Effetto fantasia… ho aggrappato la patta. Ce l’avevo duro come l’asta d’una bandiera. Ho bisbigliato all’orecchio, all’orecchio nero: «Per Dio, sì!». Poi lo sciacquone ha scrosciato, dunque l’attrito per il corridoio. Poi al mio amico, ho detto: «Lo compro!».
Luigi Russo