Sognare i denti porta sfiga, hombre de la Libra: un racconto di Federico Dilirio

 Sognare i denti porta sfiga, hombre de la Libra: un racconto di Federico Dilirio

Illustrazione di Vecchia Jane

Ed è proprio il dente del giudizio, l’unico che ti era rimasto in bocca, quello che scivola in cielo.

Tutto merito del jab ben assestato dalla nefrologa, conosciuta on line, che ti ha spupazzato nelle ultime settimane di maggio. Un mese spendaccione, nelle isole Canarie dove lei ti ha spintonato: «Andiamoci ora, tesoro, e a novembre non sarai più depresso. Promesso!».

Vorresti recuperarlo, quel tuo dente maledetto, ma i crumiri del porto fluviale ti impediscono di raggiungere lo stadio del dott. Findus, dove ha perso la vita tuo padre, il padre di tuo padre, il nonno di tuo nonno, in un saliscendi di estrazioni e di scontri tra fazioni. La nefrologa fa spallucce. Afferma, testuali parole: «Non andarci dal dentista, tesoruccio, trovati un lavoro normale, così sarai meno ragazzino. A dicembre poi ci sposeremo e con la Samp andremo a succhiar cozze in fondo alla riviera, oh mio dolce lumacone».

Lumacone, già. Ha detto proprio così: oh mio lumacone. Ma non ti fanno schifo, le lumache, bellezza? Dubiti che lei poi, nefrologa di fama interrazziale, sposerebbe mai un bancale, figurarsi un lumacone.

E tu, che non trovi un dentista nemmanco a pagarlo, fissi nel cielo il dente solingo, unico anfibio di un incontro di jujitsu, tra angeli che si menano in bocca per determinare chi riesca meglio a portar iella. Uno spettacolo indecente, tanto che fuggi e raggiungi la pasticceria dove ti aspetta Flanello, la flâneuse, che nella trama interpreta l’amante, il segreto e il doppelgänger.

Da quando state insieme le è cresciuta la barba e ha perso i capelli. Dice che sono gli ormoni. Tu capisci che sono gli omoni. E poi un giorno le hai visto i coglioni, grossi come bocce da bowling. Ma lei non ti picchia, lei non ti suona come fa la nefrologa: e poi sta a Roma, che ne sa. Se vi pesate, fate mille chifferi in due e cappucci a colazione. Una bella sommetta, non c’è che dire. E prima di andare al lavoro (tu in fabbrica a Gessate, lei sulla Salaria), vi divertite a importunare imbianchini e piccioni, a imbeccarli da mongolfiere che ardono nel buio di una Roma spettrale, con burro di aracnidi (no, non è un errore, è proprio di aracnidi).

Un bacio, una metro e sei a Busnago.

Pensi che sarebbe bello planare su Gorgonzola, con ali di cacio e piume di pepe, assemblate estraendo denti guasti. Lei ti ama, e sogna un rinfresco per gli ingrati ad Arona, dove ha cominciato la sua brillante carriera di capostazione. Tu dici che vivere e sposarsi ad Arona non è molto peggio che morire per strada a Cortona, ma sempre meglio della nefrologa che ti pesta con la fibbia se implori l’elemosina e un poco d’acqua: «Voglio una casa a Torvaianica, altro che amore, barbone!».

Ora, se fissi il tuo sguardo nel grembo del cosmo, al netto delle obbligazioni, resta pur sempre un anno buono per te, uomo della Bilancia, ed è meglio stendere le brache in valigia e prepararsi al decollo. Allacciare le cinture, assumere la posizione, incollare lo sguardo alle chiappe delle hostess e 3,2,1…!

E poi è il giorno del giudizio, e Olivia Parrish ti fa cenno di spalare, perché la fila per le ali è lunga e ti conviene rinunciare. Sarà buio fra poco e la sdentata davanti non si spiccia. Non pensavi che in cielo assumessero le granny per volare su Prenzlauer Berg a leggere le menti.

Ahia! La buona educazione non è il tuo forte e sei rispedito al piano terra, senza ali e senza denti, per tornare a Gessate come ostaggio. Sogni piume di cristallo per librarti in volo e sganciare sui lombardi le taccole di Molière, la peggior noia mai scritta, che ancora reciti a memoria. Allora eri infatuato di un’attrice che esibiva una foresta di iguane intorno ai capezzoli. Per questo fingevi ti piacesse.

Chi, lei o Molière?

Comunque né tu né lei friggete più i francesi. Tu vivi a Gessate (non sai se si è capito, e così lo ripeti alla noia), nella fabbrica di bastoncini Der Schön (ti eri dimenticato di rimarcare che dormi lì), lei tra il Napoli (la squadra) e il Niguarda (l’ostello), col marito, le anguille e una figlia in affido. Quando ti addormenti sogni di lavarti, dormire e defecare sull’auto del marito: hanno tutti la stessa Panda in città, arancia e blu.

Meglio mettersi ai fornelli e spadellare, bastoncini con un filo di letame (biologico, che comprasti quella sera, nel reparto top del top dell’Esselunga, a 30 €, per regalarlo a Flanello, flâneuse della Salaria), fregandotene dei radicali liberi che votano a favore di aborto e atarassia (anche se alzi il fuoco non riesci a debellare gli alfieri del capitalismo col volto umano, epigoni di Tony Blair Witch Project).

Fumi erba e torni coi piedi per terra. Una volta atterrato, sei invaso da milioni di denti che ti calpestano la nuca: «Nataša, dove hai messo la sciarpa del sistema? Riportala qui, che ho voglia di scalare i cieli di Schöneberg!». Ma Nataša non è che una bagnina, un sogno erotico per orbi pervertiti.

È anche per questo che strappi la comanda, cancelli il piatto e lo rimpiazzi con sofficini ripieni di saliva e otturazioni, che mollano il gesso dei tuoi denti, in un letto di piume, cottura 20’. «’Na farinata ar 12!» urla l’ascolano spelacchiato. Non ci fai caso, perché Schöneberg e Prenzlauer Berg muoiono sbriciolate nel cielo che si annienta su Gessate, con Giove pluvio più i Mercury Rev che ti instillano ferocia, regalandoti un piglio mefitico per affrontare le nefrologhe del globo terracqueo, nel tuo anno memorabile di comatoso barcollio.

Lo diceva bene la barbiera, che il cavolo è mancino, è avido e suona il tombino. Parrucchiera sì, ma con un’anima vagabonda e tanto rasta per essere Bilancia, quando nei pomeriggi di agosto le lappavi l’ascella sudaticcia, durante il taglio della barba e la mietitura dell’oroscopo di «Astra»: «È l’anno giusto per te, grand’uomo di Brianza. Non soffiare, succhia, succhia e non parlare» per poi precisare «che ti maledico a fare, ti spadello per bene e ti faccio la ceretta. Succhia, succhia e non soffiare: che altro non sei, che un lombo di maiale».

 

Federico Dilirio

Blam

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