El moros de la Madunina: un racconto di Livia Castiglioni
Ormai aveva imparato ad arrampicarsi sulle pareti con estrema eleganza. Aveva provato a lungo su quelle della camera da letto. Erano abbastanza porose e ruvide. Una palestra perfetta. Riusciva a adattare mani e polpastrelli con sempre maggiore facilità. I calli erano ben formati. Adesso. All’inizio era stato difficile. Nella stanza da letto, se spostava l’armadio, potevano vedersi chiaramente i segni dei primi tentativi. Striature di sangue, frammenti di epidermide, pezzetti di unghie. Ne era passato di tempo. Il training era stato lungo, e in effetti lo aveva profondamente cambiato. Dentro e fuori. Ora le mani erano strane. La pelle ispessita, compatta, aveva comunque mantenuto, se non aumentato, la sensibilità tattile. E proprio questo gli permetteva di raggiungere con facilità il soffitto della stanza. Ancora prove da altre parti, in altri luoghi, non ne aveva fatte, ma una certa sicurezza derivante dall’esperienza gli consentiva di figurarsi possibile ogni scalata in interni e, perché no, anche in esterni. E le sue previsioni si rivelarono fondate quando, in soli quarantacinque minuti, arrivò a toccare l’ultimo finestrone della Torre Velasca di Milano.
La sua fama di scalatore di superfici verticali si sparse a gran velocità.
E così, nel giro di un anno o poco più, divenne famoso come «l’arrampicatore». Presenza fissa di inaugurazioni, trasmissioni, eventi mondani. «L’uomo ragno meneghino». «El moros de la Madunina». E in onore alla città che aveva visto i suoi natali, scelse un costume giallo zafferano, proprio come il risotto tipico milanese.
La fama si tirò dietro ammiratori, fan, fan club, cosplayer, raduni, e inevitabilmente, imitatori. Imitatori che provavano a seguire i suoi training su internet. Imitatori appassionati. Molto appassionati. Prossimi a trasformare la passione in emulazione. E il passo dall’emulazione alla competizione era assai breve. Questi appassionati ben presto, quasi come processo naturale e necessario, si trasformarono in rivali. L’arrampicatore non aveva pensato inizialmente alle conseguenze, né a ciò che avrebbe potuto scatenare. Ingenuamente aveva condiviso i segreti del proprio allenamento sul web. Con esiti eccellenti per la popolarità raggiunta, ma terribili per la sua arte. Il suo canale YouTube aveva avuto subito un seguito strepitoso. Con risvolti inizialmente entusiasmanti, ma poi dannosi e inarrestabili. Dopo soli tre anni, gli arrampicatori fiorivano in tutto il mondo. Lui era il primo maestro, certo, ma stava per essere scalzato dalle innumerevoli sette di scalatori di superfici verticali che pullulavano in ogni città. A New York stavano per aprire una vera e propria scuola.
Era sull’orlo della depressione. Si sentiva tradito. Fallito. Truffato dal suo stesso entusiasmo, dalla sua stessa arte, dalla sua ingenuità. Restava una sola cosa da fare: tentare l’intentabile.
Se la complessa arte dell’arrampicarsi sulle pareti era ormai cosa assodata per lui, l’arte assai più difficile dell’arrampicarsi sugli specchi gli era ancora inaccessibile. Le superfici di specchi e vetri scivolavano con indifferenza sotto i suoi consunti polpastrelli, limitandosi a riflettere, ogni volta, il suo volto sudaticcio e i muscoli tesi. Si fece montare un enorme specchio in casa, dal pavimento fino al soffitto, grande a sufficienza per allenarsi. I primi tentativi finirono malissimo e, all’ennesimo fallimento, cominciò a intuire qualcosa, seppur vagamente. Il problema non era la tecnica, il materiale, la temperatura dello specchio… no. Arrampicarsi sugli specchi richiedeva qualcos’altro. Si trattava di un’abilità diversa da apprendere e padroneggiare, che non aveva a che fare con il semplice procedere verso l’alto issando il proprio corpo, ma sembrava avere e pretendere connessioni più complesse di quelle unicamente spaziali. Iniziò, quasi senza rendersene conto, ad affinare la propria arte oratoria. A poco a poco. Un giorno, per caso, o forse per intuito. Fatto sta che inspiegabilmente qualcosa accadde. Conversava. Rigirava i discorsi. Adduceva scuse che in poco tempo, da improponibili, divennero, grazie ad abili manipolazioni sull’ascoltatore, assolutamente inattaccabili seppur assurde. Maggiore proprietà di linguaggio, maggiore seduzione verbale ed ecco che una mano rimaneva appesa allo specchio per frazioni di secondi sempre superiori. Creando invisibili e improbabili collegamenti neurali tra le sinapsi, misteriose sedi dei principi del linguaggio, e i sistemi nervosi centrali e periferici del controllo motorio, di pari passo crescevano in lui due abilità: dell’arrampicarsi sugli specchi sia in senso figurato sia concreto. Il corpo e la mente mai erano stati in lui così febbrilmente un tutt’uno di senso e di sensi.
Contemplava il riflesso del suo corpo di fronte allo specchio, sapendo che la sua arte oratoria da fine dicitore aveva ora un corrispettivo incarnato, una corrispondenza, un doppio perfetto, «un’immagine perfetta e speculare, come riflessa» nell’inafferrabile abilità fisica che aveva sviluppato. Era pronto.
La nuova abilità fu un successo senza precedenti. Questa volta ineguagliabile. Arrampicarsi sugli specchi non era davvero per tutti. Agli emulatori, rivali, fan che gli chiesero di condividere i suoi segreti, l’arrampicatore rispose (o tentò di rispondere) con la consueta generosità: video, foto, e-Book, tutorial in cui mostrava «la nuova tecnica». Ma questa volta, e anche lui lo sapeva, non aveva davvero nulla da temere. La sola spiegazione della parte motoria, con i tecnicismi legati a elasticità, velocità, articolazioni e fasce muscolari, sarebbe stata insufficiente per chiunque. Anche per lui. C’era qualcosa, in quella nuova arte, di assolutamente non trasmissibile, non «insegnabile», troppo intimamente connesso con i meandri neurali delle costruzioni semantiche.
Ora si sentiva unico. E lo era. Più di un funambolo, più di una star. Più di un intellettuale, più di un pensatore. Fisicamente un artista con abilità al limite del magico. Mentalmente un oratore senza precedenti.
Era un eroe.
Un supereroe.
Con un potere.
Arrampicarsi sugli specchi (o sui vetri, che dir si voglia).
Certo, non salvava vite, ok. Però.
Si preparava, quella sera, a un grande evento. Vestito del suo costume giallo-oro-zafferano, con dei ricami rossi che richiamavano la preziosa spezia nella sua forma pura, si osservò a lungo allo specchio. Un normale specchio rettangolare, posto sopra al lavandino, a un ottimo lavandino di ottima fattura, col ripiano in marmo. Un ottimo bagno, un ottimo arredo, nel suo loft milanese ammobiliato con gusto indiscutibile dalla sua costosissima arredatrice d’interni.
Manca qualcosa. Pensò. Non alla casa, non al costume. A questa storia. Alla mia storia di supereroe, pensò.
Arrivò alla sede dell’evento. Il centro di piazza Duomo a Milano. Tutto era pronto. La piazza gremita di gente, giornalisti, telecamere tv… tutto cose a cui era ormai assuefatto. Si sistemò un polsino. Flash, microfoni, presentatore. Uno famoso, ma non si ricordava mai il nome, uno con la voce impostata, forse un dj. E bla bla bla sorrisi eccetera, eccetera, ed eccola lì, la sua impresa mai tentata. Fredda e bellissima. Perfetta. La lastra. Lo specchio più alto del mondo.
«Costituito da 115 sezioni, perfette, lavorate e tagliate al laser, unite insieme in un’unica sezione verticale con una nuova tecnica che fa apparire la superficie totalmente uniforme. Supportata posteriormente da un congegno multi modulare in titanio per minimizzare le oscillazioni del vento. La struttura ha richiesto 34 giorni di montaggio, e al termine dell’esibizione resterà fruibile come installazione al pubblico per tre mesi. Larghezza della base due metri, altezza…» blaterava il dj-presentatore brillante e sorridente come in una pubblicità di dentifricio.
Eh sì, l’altezza: era il bello.
Un brivido, di adrenalina. Ma non si sentiva agitato. L’aria era tiepida.
Il dj continuava a parlare bla bla bla, ma aveva poca importanza.
L’arrampicatore era concentrato, il corpo e le terminazioni nervose allerta e quella sensazione di vuoto dentro la testa che gli faceva percepire l’apertura totale delle sinapsi, come in corsa in un corridoio lustro su pattini a rotelle.
Il dj era ancora alle prese con il bla bla bla, quando lui, El moros de la Madunina, era già salito di quasi tre metri. L’arrampicata sullo specchio era cominciata.
Su. E poi ancora su. Entusiasmo trombe acclamazioni flash sorprese giubilo nella piazza gremita e ora: silenzio.
E su e su e poi ancora su. Troppo facile, pensava, arriverò in cima stabilirò un record, e poi? E su e ancora su, con eleganza, senza esitazioni, l’aria leggermente fredda. E saliva. Arrampicarsi sugli specchi era soprattutto una questione di anima. Ma che tipo di anima? Tutto questo faceva di lui una persona migliore? Aveva ottenuto fama e successo arrampicandosi sugli specchi. E in fondo, pensava, per quanto fosse abile, non era una cosa encomiabile. Anzi. Sebbene arrampicarsi sugli specchi potesse essere un’abilità, in tutti i sensi, forse invidiabile e auspicabile da molti, aveva in sé un risvolto torbido. Un qualcosa che affondava le proprie radici in una sfumatura di losco raggiro retorico e filosofico dell’altrui sentire e percepire.
Allora, voglio essere ricordato per qualcosa di più, pensò.
Era trascorsa quasi un’ora, mancavano pochi metri al bordo dello specchio. Ora so. Ho capito. Questo sarà. Si disse.
Iniziò ad accelerare. Questo richiedeva uno sforzo fisico e mentale notevole. Nervi saldi. Mente salda. Corpo teso, flessibile, leggero. Sempre più veloce. Il bordo sempre più vicino.
E dopo accadde.
Quello che fece, da chi stava a terra, che seguiva con telecamere, binocoli, macchine da presa di ultima generazione, apparve più o meno così: l’arrampicatore sale sempre più veloce. Raggiunto il bordo, dove, da accordi con gli emittenti si sarebbe dovuto fermare e salutare, non si ferma. Prosegue. Prosegue come un ragno velocissimo e spedito la sua salita verso l’alto. Oltre il bordo dello specchio. Che lo riflette un’ultima volta. E sale ancora aggrappandosi all’aria, alle molecole sottili, al nulla sopra le teste e sopra la città di Milano ancorata in tutto il suo vento, come dice il poeta. Sale senza più doversi guardare allo specchio, ma facendo molto più onestamente i conti con sé stesso. Sale sopra i milanesi col naso all’aria. Sale e guarda giù la Madonnina che splende. Sale finché nessuno riesce più a vederlo. Sorride. Ma nessuno lo può vedere. E lui è felice. E sale. Aggrappandosi a niente. O forse solo a sé stesso.
Livia Castiglioni
1 Comment
vorrei fare i complimenti a Livia! che bel racconto! Corre e si mangia in un boccone, una bella lingua, ricercata e giusta, mi ricorda certe atmosfere alla Vittorio De Sica di miracolo a milano, davvero bello, con una metafora riuscitissima, arguta e mai retorica.
grazie davvero
luca