Buchi bianchi di Carlo Rovelli: racconto di un viaggio stellare. Recensione
Quando frequentavo la quarta liceo scientifico, andammo in visita all’Istituto nazionale di Fisica nucleare di Frascati. Ricordo un ricercatore sottratto al suo lavoro per fare da guida a una ventina di studenti ficcanaso: davanti ai mastodontici acceleratori di particelle, riusciva a malapena a comunicare con noi. Ciononostante apprezzammo il suo sforzo: perché era evidente che ne stesse facendo uno. A Carlo Rovelli, autore di Buchi bianchi (Adelphi, 2023), la costruzione di un ponte tra l’aula soleggiata a Marsiglia, in cui con Hal Haggard ragionava sulla distorsione dello spazio-tempo, e il mondo fuori da quell’aula – quello abitato da tutti noi inesperti esploratori dei misteri della Fisica – riesce invece con una facilità invidiabile. L’impressione, già all’apertura del saggio, è quella di una grande umanità: non c’è freddezza, siamo a nostro agio da subito. La prima parte del libro è un invito a ripercorrere una breve Storia del pensiero scientifico, un luogo dove il dubbio è una pratica costante e non è necessario urlare la propria idea per annientare l’interlocutore: «L’obiettivo non è convincere chi ci sta intorno: l’obiettivo è arrivare a capire». Lo sguardo che Rovelli ha sul suo mestiere, la sua scrittura gentile ci offrono continuamente spunti di riflessione: «Non c’è nulla di male nel ricredersi. Gli scienziati migliori sono quelli che si ricredono spesso, come faceva Einstein».
Buchi bianchi di Carlo Rovelli: di cosa parla il libro
Buchi bianchi è un racconto di viaggio dentro l’orizzonte di un buco nero. Come tutti i viaggi, prevede un saluto (a quelli che ci guardano dall’esterno, e per i quali ci allontaniamo sempre più lentamente) e l’abbandono di alcune cose (abitudini del pensiero che, nel luogo in cui andiamo, sarebbero d’ingombro). È anche un coming of age, una di quelle storie che raccontano il passaggio dall’infanzia all’età adulta, quando i maestri e i mentori, per quanto ci siano sembrati indispensabili, vanno lasciati indietro, per poter avanzare contando sulle nostre sole forze. Il viaggio che Rovelli ci propone è destinato a chi sa farlo, a chi sa lasciar andare, con gratitudine. La teoria della relatività di Einstein, lì dove siamo diretti, non vale più. Questa nostra, come l’esplorazione dell’aldilà compiuta da Dante a cui Rovelli torna spesso, comporta una vertigine. Ma proprio quando siamo pronti a essere inghiottiti dal buco nero, insieme a tutta la materia che sul suo orizzonte vortica, ecco il colpo di scena: non spariremo, torneremo «a riveder le stelle». Ma com’è possibile? Il buco nero, nel suo progressivo allungarsi e restringersi, raggiunge un limite in cui la materia rimbalza e, oltre il quale, diventa un buco bianco da cui la materia inghiottita viene espulsa. Come un video mandato in reverse. Per noi coraggiosi sono passati pochi minuti. All’esterno del buco, invece, è trascorso un tempo lunghissimo, milioni di anni. Il nostro, quindi, è anche un viaggio nel tempo. E il buco bianco, una scorciatoia verso il futuro.
L’universo visto da qui
«Ci dimentichiamo che siamo come le altre cose. Che guardiamo le cose essendo come loro. […] Siamo processi guidati dalle stelle stesse».
In questa connessione tra tutto ciò che esiste, è possibile che le parole di uno scienziato richiamino alla mente un noto verso di Shakespeare o la parabola buddista della rete sospesa sopra la reggia del dio Indra, in cui ogni gioiello legato a un nodo riflette in sé l’immagine di tutti gli altri. Le vie della conoscenza, se percorse con coraggio, ci indicano una direzione. È per quello che andiamo nello spazio, con la mente e con i moduli orbitanti, le sonde e i lander. Per capire che non c’è soluzione di continuità tra noi e gli altri, tra noi e l’ambiente, tra noi e i buchi bianchi. Arrivati qui, cade ogni divisione. Anche quella tra scienza e arte, di cui Rovelli è appassionato e conoscitore. La scienza non è solo ragione, matematica, esattezza, ma, proprio come l’arte, è fatta anche di intuito e di immaginazione. Entrambe attivano un processo mentale di continua revisione dei significati e instillano in noi la voglia di vedere il nuovo nel mondo.
La scrittura di Carlo Rovelli in Buchi bianchi
In almeno un paio di occasioni, Rovelli ci fa intendere che la scrittura di questo libro non è stata immediata: nel 2020 ne scriveva una prima versione, soggetta a rimaneggiamenti, revisioni e riscritture. L’esito di tanto lavoro è felice: la lingua di Rovelli è scorrevole, coinvolgente, a tratti poetica, lontana dal gergo tecnico, tanto da poter infastidire i giovani addetti ai lavori. A loro l’autore, per farsi perdonare, dedica una nota piena di nomi e teorie. Agli altri, forse la maggioranza dei futuri lettori, ha dedicato l’intero libro e di questo gli siamo grati, così come di averci confidato che «il vero senso delle parole […] non è comunicare. È tenere le cose con noi, stare in relazione con loro».
A cura di Sara Benedetti