Pop: un racconto di Edoardo Balacchi
Incerto sul crinale che divide Lupo Alberto da Alberto Lupo, mescolo la vodka con l’acqua tonica per prepararmi a cenare da solo davanti a un’altra puntata di Ciao Darwin. Il cuscino è comodo, artigianato di qualità, mi avvolge come un utero. Alzo il volume per non sentire l’apocalisse che fuori dalle finestre sta svendendo la nostra umanità con un 3×2 clamoroso.
Squilla il telefono e dietro l’offerta più conveniente c’è Cinzia che mi dice di essere incinta.
Non la sento, non capisco, c’è Bonolis che urla, il pubblico ride, forse ride di me perché mi sono versato addosso un intero bicchiere di birra – meno male che c’è «Ava come lava per pulirsi», Ava o l’ardore, o altri negozi aperti h24, per cambiarla, questa maglietta di merda.
«Che dici, non ti sento?»
«Sono incinta, sono incinta!»
Mi parla di lineette blu o rosse, non ricordo, ma sento che qualcuno sta parlando con lei mentre è al telefono. È suo padre? Non risponde, forse è il tram, forse è la televisione.
Il futuro è internet, lo sappiamo tutti, la televisione serve solo per addormentarsi, ma è dolce lasciarsi svuotare, capisco il mio rubinetto che geme di piacere ogni volta che apro lo scarico. È bello restare vuoti come quando a letto con Cinzia la guardo mentre fissa il soffitto nuda e indovina nelle crepe sul soffitto il crollo futuro della casa degli Usher.
Intanto penso che non è possibile, non può essere incinta.
«Ma credevo lo volessi, credevo fossi felice! Credevo la volessi, una famiglia, due cuori e una capanna, è tutto intorno a te, meglio cambiare no?»
«Cinzia, sono slogan, solo slogan! Come fai a crederci veramente?»
Il programma ha ripreso ma ne ho abbastanza, nessuno si fa male e io ho bisogno di sangue come di birra o di ricordi felici. Adesso non ho niente, eppure mi sento così pieno, così farcito.
Cinzia mi satura di parole e di pianti e io vorrei solo farla tacere per poterle spiegare che siamo in un sogno, nell’incubo di qualcuno che non ha niente di bello a cui pensare, un incubo in technicolor come quei vecchi film alla tv che guarda sua nonna mentre fa la maglia.
Le dico che siamo la soap opera di noi stessi e lei ridacchia, confusa.
Io riappendo stordito come da una réclame e poi mi chiedo se sia etico dare alla luce un figlio in questo mondo senza più Iron Man né Franco Califano.
Prendo la giacca ed esco, il mondo ribolle e detona nelle piccole esplosioni di luce fra i fili del tram, io evito di guardarle perché so che, come fiamme ossidriche, mi salderebbero le palpebre e non voglio perdere questi colori che mi aggrediscono ogni volta che esco.
Sui cartelloni ci sono solo donne più belle di Cinzia e meno incinte, donne ammiccanti nei loro completi firmati che costano gelosie e fruttano interessi imbattibili. Una volta farò un finanziamento e ne prenderò uno anche a Cinzia, se solo questa storia finirà, se solo i tram smettessero di seguirmi sfibrandosi i binari in una risata senza fine.
Ecco il centro, ecco ciò che ne rimane. Non c’è nessuno in giro, solo vecchi che non hanno nulla da perdere e girano sfidando il cielo nero e le tempeste che fanno traboccare i tombini. C’è acqua nera ovunque, nemmeno un rotolo e la macchia svanisce. Io mi immergo sino alle caviglie, insisto ad avanzare sino al primo porticato coi negozi chiusi e i barboni assiepati davanti alle vetrine e alle grate. Li vedo sbavare per un iPhone o per un tozzo di pane profumato. Ricordo che ci furono assalti ai forni, tragedie tascabili oltre i quadranti smaglianti degli orologi, ricordo tutto come se fosse un film.
Allora mi siedo, il marciapiede è una poltronissima vip per questo spettacolo derelitto. Cinzia mi cerca, la sala è grande come una piazza ma sembra piena di gente che non sa cosa sia la vita. La sento che mi chiama, ha la pancia enorme e sciaguatta con le crocs tarocche nel verde marcio delle pozzanghere. I tram passano come passa un dolore. È uno schermo, è una proiezione. Tutto lo è. Io la guardo, guardo il film che è così grosso da abbracciare tutta la città coi vecchi e i barboni e i disperati che si siedono sul marciapiede.
Cinzia inciampa, si rialza. Qualcuno alle mie spalle le grida di fare silenzio. Io mi nascondo, spero non riesca a vedermi: la guardo avanzare fra vetri rotti e cartelli stradali divelti mentre una pioggia di popcorn comincia quietamente a scoppiettare nel cielo. Sono fuochi d’artificio, mi dico, sono spari, è il nemico.
Ci cadono sui capelli, sui palmi aperti delle mani come fiocchi bollenti. Sono un cantico, sono l’ultima diretta dalla terra. Possibile che tutto stia già finendo? Forse sono solo i titoli di testa. Cinzia mi chiama – «Torna a casa!» – ma io chiudo gli occhi e scelgo di sprofondare.
Il film sta iniziando, mi dico, lo sento, eccolo che inizia. I popcorn divampano, le crocs sprofondano in qualcosa che sembra morto da tempo. Buio in sala.
Edoardo Balacchi