Romanzo d’appendice: cos’è, significato, storia, libri e tutte le curiosità del feuilleton
Siamo nel 1836: una strana folla si ammassa attorno all’edicola di quartiere, strattonando i vicini e porgendo qualche spicciolo. Tra le urla di chi reclama la sua copia, una donna corre via con un giornale in mano, rovistando avidamente tra le pagine. A un tratto si ferma, inforca gli occhiali, si siede su una panchina e inizia a leggere, scorrendo rapidamente una riga dopo l’altra. Trattiene un’espressione di sorpresa, poi va via stringendo la propria copia tra le mani. Arrivata a casa, sa già che rileggerà tutto da capo, tentando di indovinare cosa succederà nella prossima puntata.
Meno di dieci anni dopo, il presidente del consiglio francese Nicolas Soult chiede che un uomo venga graziato e fatto uscire di prigione, così che possa continuare a scrivere il suo romanzo. Qualche giorno prima aveva buttato, infastidito, l’ultima copia del «Journal des Débats» nel fuoco, perché aveva scoperto che mancava la nuova puntata della storia a cui si era appassionato. Soult voleva sapere a tutti i costi come sarebbe andata a finire – e così quell’uomo uscì di prigione e terminò il libro. Il suo nome era Eugène Sue, e con I misteri di Parigi sarebbe diventato uno dei più grandi scrittori di feuilleton della Storia di ogni tempo.
Il romanzo d’appendice: la storia
Il romanzo d’appendice, o feuilleton, è un genere letterario che nasce nel 1836, quando Emile de Girardin, per aumentare il numero dei suoi abbonati, decide di pubblicare in appendice al suo giornale (il quotidiano «La Presse») romanzi a puntate. Non si trattava di una novità esclusiva, considerato che già nel 1830 era possibile trovare racconti di viaggi e novelle nella parte più bassa di alcuni giornali (la rez-de-chaussée), ma fino a quel momento si era trattato di eccezioni, esperimenti isolati e fortuiti: niente a che vedere con la sistematicità con cui si sarebbe imposto il romanzo d’appendice nella seconda metà di quello stesso decennio.
L’iniziativa di Girardin venne presto seguita da altri giornali parigini, come il «Siècle», il «Consitutionnel» e il famosissimo «Journal des Débats». Proprio quest’ultimo aveva sperimentato per la prima volta, nel tempo del Direttorio, la formula del feuilleton, che consisteva in un’appendice nella quale trovavano spazio le rubriche letterarie e le recensioni: nessuno avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe diventato proprio quello il luogo privilegiato della narrativa, tanto da arrivare a prestare il nome al nuovo genere letterario che si stava formando.
Il romanzo d’appendice: cos’è?
Per un lettore del Ventunesimo secolo, il romanzo d’appendice potrebbe ricordare vagamente la struttura delle serie tv: come in quel caso, si tratta di una storia fatta di episodi che vanno messi insieme dal lettore di volta in volta, a mano a mano che le puntate vengono pubblicate. Pensato per un pubblico ampio, tra l’altro, il racconto è godibile, scorrevole e coinvolgente: tra amori passionali, tradimenti, vendette, storie di povertà e ricchezza, fughe e imprigionamenti è impossibile annoiarsi, tanto più che ogni puntata si conclude con un colpo di scena che stuzzica la curiosità del lettore al punto da non lasciargli altra scelta se non comprare il numero successivo. Come nei finali di stagione, l’aspettativa rispetto al «come andrà a finire» è altissima.
Il romanzo d’appendice: un genere che metteva d’accordo tutti
I romanzi d’appendice, quindi, si rivolgevano a tutti, anche perché furono tra i primi a raccontare il popolo e non la borghesia, riuscendo a dare dignità persino alle storie di chi era assolutamente insignificante nella vita di tutti i giorni. Ovviamente esistono delle eccezioni, e sarebbe sbagliato credere che tutti i romanzi del genere si concentrino su questo tipo di intrecci, ma anche quando al centro del racconto non c’era gente qualunque, i lettori erano comunque estremamente diversificati tra loro: dal ministro Duchatel – che un giorno, sconvolto, andò dal critico Legouvé per condividere la funesta notizia della morte di Louve, protagonista di I misteri di Parigi – ai proletari, dalle contesse ai ragazzini che cercavano di recuperare le copie degli abbonati, a casa e nei cabinets de lecture, per strada e nei palazzi, nessuno sfuggiva al fascino dei feuilleton.
I romanzi d’appendice più importanti in Francia
Sono moltissimi gli scrittori che raggiunsero – o aumentarono – la propria fama scrivendo a puntate sui giornali: Honoré de Balzac, per esempio, fu uno dei primi a pubblicare su «La Presse» uno dei suoi romanzi, La signorina Cormon. Alcuni di loro oggi ci risultano quasi del tutto sconosciuti, nonostante venissero letti da migliaia di persone al tempo: abbiamo già citato Eugène Sue, ma a lui si potrebbe aggiungere il nome di Frèderic Soulié, che pubblicò a puntate la sua opera più importante, intitolata Memorie del diavolo.
Ci sono poi moltissimi autori che oggi hanno raggiunto la statura del classico e, per questo motivo, si sono smaccati dall’etichetta di scrittori di romanzi popolari, sebbene debbano proprio al feuilleton la loro fama. Gustave Flaubert è un caso emblematico: nessuno oggi sospetterebbe che Madame Bovary – uno dei casi più ricordati tra i romanzi processati per oscenità – si sia costruito, puntata dopo puntata, tra le pagine di «La Revue de Paris». Lo stesso si può dire per Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (padre), che venne pubblicato sul «Journal des Débats»: una storia multiforme, labirintica e volutamente lunga che, proprio per questo motivo, esemplifica bene quella tendenza a complicare le trame tipica del romanzo d’appendice.
Il romanzo d’appendice in Italia
In Italia il romanzo d’appendice si diffuse soprattutto nell’ambito della letteratura per ragazzi. Molti degli scrittori che oggi vengono proposti a scuola tra i libri da leggere in vacanza pubblicarono per la prima volta le loro opere sui quotidiani: è il caso di Emilio Salgari con le avventure di Sandokan, di Edmondo de Amicis con il suo intramontabile libro Cuore e, infine, di Carlo Collodi con Le avventure di Pinocchio.
Ma l’autore più importante tra quelli che trovarono spazio nelle colonne dei quotidiani italiani è, in realtà, un’autrice: Carolina Invernizio. Il suo nome oggi non ci dice nulla – e non c’è niente di strano, purtroppo, se consideriamo che non ci dicono nulla neanche i nomi di Maria Messina, Livia de Stefani, Dolores Prato, Gina Lagorio e mille altre: tutte scrittrici, tutte dimenticate – eppure tra fine ‘800 e inizio ‘900 era proprio lei la più prolifica scrittrice di romanzi d’appendice in Italia. Le sue storie, piene di colpi di scena, si muovevano in ambito familiare, tra adulteri, seduzioni e omicidi, e riuscivano a coinvolgere chiunque: persino le donne, che troppo spesso rimanevano escluse dalla fruizione della letteratura. Forse è questo il motivo per cui le vennero indirizzate critiche pesantissime (Antonio Gramsci la definì «onesta gallina della letteratura popolare»): avere successo, per una donna che scriveva nel primo Novecento, era una colpa imperdonabile.
Il romanzo d’appendice: è davvero letteratura?
Nonostante i più famosi romanzi del genere siano di ambito francese, come la stessa origine del nome feuilleton lascia intuire, in realtà uno tra i primi a sperimentare questa formula fu Charles Dickens, in Inghilterra: da Il Circolo Pickwick a Oliver Twist, quasi tutti i suoi libri vennero pubblicati su rivista, contribuendo ad aumentarne le tirature. Anche Tolstoj e Dostoevskij si affidarono ai giornali per dare alla luce le loro opere più importanti, come Guerra e pace e I fratelli Karamazov, e forse proprio loro, più di altri, dimostrano quanto sia insulso quel pregiudizio che per anni ha marchiato il genere, confinandolo nella letteratura di consumo. Non esiste infatti nessuno che abbia saputo descrivere con più precisione di Dostoevskij le storture dell’animo umano, la continuità che esiste tra il bene e il male, la speranza miserabile di chi crede di aver trovato finalmente l’amore e l’ossessione omicida di chi lo distrugge. Né, prima di Tolstoj, qualcuno era riuscito a rendere tutto il sentimento di un’epoca che avrebbe sconvolto la Storia per sempre come quella napoleonica. Se c’è una cosa che questi autori ci insegnano, in altre parole, è che scrivere per tutti non significa semplificare, ma raccontare il mondo senza il timore di perdersi nella propria stessa storia, inseguendo la realtà in tutte le insenature in cui si nasconde e portandone a galla ogni contraddizione e illogicità. Non è un caso quindi che, dopo secoli, questi romanzi continuino a piacerci e affascinarci, nonostante parlino di un contesto lontanissimo dal nostro e si dilunghino per pagine e pagine su questioni che ormai neanche più capiamo (se la vostra domanda è se si possano saltare queste lunghissime digressioni, la risposta è sì, ma tenete presente che ci vuole del genio per scrivere interi capitoli sui modi di coltivare la terra in Russia e renderli persino interessanti, come accade in Anna Karenina). Chi scriveva romanzi d’appendice aveva evidentemente capito qualcosa sul presente che agli altri sfuggiva, e cioè che, per quanto ci piacciano le storie che hanno un inizio e una fine e una coerenza strutturale perfetta, la vita funziona in tutt’altro modo: scivola via, sfugge continuamente, si avvolge su sé stessa e, più spesso di quanto non accada nei romanzi, si perde in vicoli ciechi. Proprio come accade in queste storie.
A cura di Rebecca Molea