Il racconto della domenica: La 104 di Alex Guerra
Mi dispiace molto. Ti ammiro per come sei perché stai dimostrando una forza che io non avrei. Se posso permettermi un consiglio, fai finta che sia un pensiero ad alta voce. Se puoi prenditi del tempo per stare con lei. Ferie o mutua insomma. Concludi standole vicino. Ma è una cosa che dico così un pensiero mio. Mi dispiace tanto.
Metto il cellulare in silenzioso e lo abbandono sopra il mobile del corridoio. Manco ho la forza di rispondergli, figuriamoci studiare Fondamenti di linguistica. Mi viene in mente, come sempre in questi casi, la strofa di De André e già la canticchio: «Si sa che la gente dà buoni consigli / sentendosi come Gesù nel tempio / si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare il cattivo esempio».
Enrico è uno dei miei migliori amici, ma ha sempre avuto il vizio – chi non ne ha, anche se il suo è un vizio particolare, fastidioso vizio – di dare il consiglio giusto in qualunque circostanza. Non ho mai capito se è un complesso di inferiorità – dare consigli: unico modo per sentirsi importanti – o un segno di megalomania – sono il saggio della montagna custode di ogni sacrosanta verità; sta di fatto che il messaggio mi è andato dritto sui nervi. E studierò male, almeno per oggi.
E lavorerò male.
Dormirò male.
Tutto riuscirà male.
Do le spalle allo studiolo e al libro di testo aperto sopra la scrivania, la lampada accesa getta un’aura mistica sulla stanza. Salgo le scale, ho le gambe pesanti come dopo una camminata in montagna. Mi affaccio alla porta della camera. Mio padre si stacca dalla penombra, si porta l’indice alle labbra. Scambio un cenno d’assenso e torno dabbasso. La spia blu lampeggia sul cellulare. Non voglio vedere altri messaggi.
Enrico non è un collega, è uno dei miei migliori amici. Enrico è forse il mio migliore amico. Forse per questo il suo messaggio è entrato subito in circolo. Mi siedo alla scrivania bassa, che di tanto in tanto mi fa venire la cervicale, cerco di studiare. Mi prende la solita spossatezza. «È perché abbiamo pranzato da poco» provo a rassicurami.
«Con la situazione che hai a casa dovresti prenderti due settimane di mutua anche tu. Restando qui lo porti a casa» mi ha detto questa mattina Roberto, il sindacalista. «Rischio di più con tutti gli infermieri e i dottori che passano per casa» gli ho risposto. Roberto si è fermato lì, forse ha compreso davvero.
Chino la testa sul libro: Allora? Non sei maggiorenne?, leggo al posto del paragrafo sull’onnipotenza semantica, Falla! Fatti furbo! C’è gente che l’ha fatta per molto meno ed è sempre a casa. Pensa prima all’azienda, lui.
«Fatevi i cazzi vostri!» dico alle facce che ho davanti. «Pensate che non l’avrei fatta se potessi?»
«Tutto a posto?» mio padre è sceso.
«Niente,» borbotto «un altro collega che mi ha suggerito la 104.»
«Lasciali perdere quelli là!» esclama entrando in cucina «Non l’ho fatta nemmeno per tua nonna. Hai già i permessi da studente lavoratore, non tirare troppo la corda.» Lo sento aprire il frigo, la mano che sposta scatole e involti. «Cosa ti serve?» domando senza staccarmi dalla sedia. «Niente niente». Sento chiudere la porta del frigo. Mi giro e lo vedo smaterializzarsi scalino per scalino. Risponde sempre così, il secondo niente come un’eco del primo. Vuole fare tutto da solo: invece ci scommetto il culo che ha dimenticato la raccomandazione della sera prima della mamma, di scongelare le bistecche per la cena. Vado in cucina, apro il freezer: l’involto è ancora lì. Lo prendo e lo metto su un piattino liscio sopra il banco bianco della cucina fresca di una settimana. Cucina che mia madre desiderava da tempo ed è riuscita a ottenere, pur senza godersela fino in fondo. In mezzo allo spazio non assimilato del tutto dai sensi riaffiora l’idea, l’idea folle, di lasciare mio padre.
E lasciare il lavoro.
Lasciare la facoltà di Lettere.
Lasciare Enrico e tutti i miei, pochi, veri amici.
Lasciare tutti, anche mia madre.
Un gemito.
Salgo di corsa le scale a due a due. Un falso allarme: la mamma si lamentava nel sonno. Mi siedo sul davanzale della finestra, mio padre fa segno che è tutto sotto controllo. Il silenzio con cui regola la valvola mi rigetta addosso le parole colleriche che poco prima ho pronunciato nella mia testa. Parole pronunciate con la leggerezza di chi si crede Gesù nel tempio.
Alex Guerra