Il racconto della domenica: Tentativi di Eleonora Capparella

 Il racconto della domenica: Tentativi di Eleonora Capparella

Illustrazione di Valentina Cascio

La prima volta che ci ho provato, le cose non sono andate come speravo. Mia sorella mi ha trovato riverso nel mio stesso vomito e ha allertato i vicini grazie a una straordinaria performance delle sue corde vocali, che hanno poi reso difficoltoso per l’ambulanza decifrare l’indirizzo di casa mia. Quando ho ripreso conoscenza in ospedale, diverse ore dopo, le sopracitate corde vocali si erano acquietate e io ho imparato la prima legge dell’aspirante suicida: opera indisturbato. In realtà ho imparato anche un’altra legge che, pur non avendo valore universale, da quel giorno ha iniziato a influenzare le mie scelte in fatto di scenari mortuari: rendi gradevole l’effetto finale. Essere tirato su coi pezzi di vomito incollati alle guance è stata un’esperienza che ha minato seriamente la mia dignità.

La seconda volta, quindi, ero già più preparato. Nessun familiare nelle vicinanze, porta chiusa a chiave dall’interno, serata solitaria in vista. Avevo allestito il mio bagno con vapore, luci soffuse – avevo persino riesumato dallo sgabuzzino delle candele al patchouli regalatemi da una zia a Natale per tre anni di seguito. Devo dire che, mentre scartavo le candele, mi ero anche sentito molto soddisfatto per aver trovato loro un impiego degno di nota.

Ho guardato la vasca piena d’acqua bollente, di sali da bagno profumati e bolle come nei film. A quel punto ho preso il taglierino dal suo astuccio, mi sono spogliato infilando i vestiti nel cesto della biancheria sporca – non volevo mica che il quadro mortuario fosse rovinato dalle mie mutande – e mi sono tagliato le vene. In acqua, adagiato tra la spumetta soffice e il sangue che fluiva, ho cominciato a rilassarmi sul serio, a immaginare il mio funerale, pieno di fiori e di gente che piangeva. L’ultima immagine che ricordo, nitida, era la faccia di mia zia che urlava tra i singhiozzi: «Le mie candele! Gliele avevo regalate io!».

Quando ho riaperto gli occhi ero di nuovo in ospedale. Una delle candele aveva appiccato il fuoco alla tenda del bagno. L’odore di fumo aveva allertato i vicini, che avevano avvisato i pompieri – stavolta senza il disturbo delle corde vocali di mia sorella. Così ho imparato un’altra regola principale: scegli un solo modo di ammazzarti ed evita che si verifichi un altro incidente mortale nel frattempo. C’è il rischio di sopravvivere a entrambi.

La terza doveva essere la volta buona. Sono partito per andare nella casa di famiglia in paese, un villino poco fuori dall’abitato. Nessun parente in vista, nessun vicino, nessuno sapeva che ero andato lì. Sono arrivato nel tardo pomeriggio e ho controllato subito la trave della cantina alla quale mi sarei impiccato: non avevo nessuna intenzione di caracollare a terra assieme alla trave dopo essere saltato dalla sedia, magari sarei morto lo stesso, ma non sarebbe stata una bella scena e l’immagine del vomito era ancora troppo vivida.

Mi sono rassicurato subito (stavo davvero diventando un professionista!) e ho deciso che per la mia ultima cena non mi sarei fatto mancare niente, così mi sono seduto sul divano con una bottiglia di Ripasso in una mano, e un cornetto Algida nell’altra. Un pessimo accostamento, ma non si giudicano i gusti dei moribondi. Finito il gelato mi sono scolato la bottiglia.

Quando ho riaperto gli occhi, la mattina dopo, avevo un chiodo piantato in mezzo alla fronte e qualcuno stava strimpellando il campanello di casa. Mi sono alzato a fatica e sono andato ad aprire: Franca mi guardava da dietro gli occhiali spessi con i suoi occhietti da zitella di paese. Franca è una di quelle donne che ti fanno dubitare dell’utilità di istituzioni complesse come i servizi segreti. Tutta gente pagata invano. Se volete scoprire qualcosa su qualcuno, mettete quel qualcuno in un paese di poche anime e vedrete come escono fuori gli altarini. E così Franca, che si stava facendo accompagnare in macchina dal cognato per andare a fare spesa al paese vicino, ha notato l’automobile dell’aspirante suicida sul vialetto di ingresso e voleva sapere se gli poteva far comodo, non so, un po’ di pane fresco con della mortadella? Qualche pomodoro? Zucchero o caffè?

All’aspirante suicida non sarebbe servito alcun genere alimentare se solo si fosse impiccato la sera prima, come da programma. Questo gli ha ricordato due cose fondamentali: in paese non si può sfuggire ai vicini per più di una giornata e secondo, ma non meno importante, l’aspirante suicida in questione non ha mai retto l’alcol.

Sono passati diversi mesi da quell’ultimo tentativo, mesi passati a escogitare piani e contropiani. Ogni volta che un metodo mi pareva perfetto, ecco subito che davanti ai miei occhi si formava la scena che mi avrebbe salvato la vita. E più immaginavo di essere salvato, più mi innervosivo. Una volta era mia sorella – di nuovo, con corde vocali e tutto – una volta un vicino, una volta la zia del patchouli che si presentava a casa mia con una immane e inutile scorta di candele stipata nel bagagliaio del pandino verde. Ma com’è, mi chiedevo, che la gente muore ogni giorno, investita per sbaglio, e io che programmo tutto ho un’infinita schiera di salvatori?

E lì, proprio lì, è arrivato il colpo di genio: mi sarei affidato al caso.

Certo, arrivare sulla provinciale e buttarmi sotto un camion non mi elettrizzava, prima di tutto perché avevo sempre pensato al suicidio come qualcosa di mio, da non condividere con nessuno, e l’idea di dover invece coinvolgere un guidatore mi faceva sentire in torto e in credito allo stesso tempo. C’era poi il solito discorso sull’effetto scenografico, che era il motivo per cui avevo scartato l’annegamento e il tuffo dal settimo piano di un palazzo. Anche essere triturato da un camion non sarebbe stato il massimo, ma a questo piano si aggiungeva un che di fatalista che mi affascinava: il guidatore avrebbe potuto sterzare la macchina in tempo, avrebbe potuto chiamare i soccorsi e salvarmi. Oppure no. Magari sarei morto sul colpo. Per me, i cui piani erano sempre falliti nonostante la cura impiegata nel progettarli, lasciare questo spiraglio al caso era come riscoprirsi ad avere fede.

Così quando oggi arrivo sulla provinciale, ho tutto lo stomaco aggrovigliato, come se stessi andando a un appuntamento. Ero così emozionato le altre volte? Non mi pare. Lo prendo per un buon segno, magari questa è davvero la volta buona.

La strada costeggia la montagna e alla mia destra, nel senso di percorrenza, c’è un burrone protetto solo da un guardrail. Io cammino sulla corsia preferenziale, mi concentro sul paesaggio, ma non guardo di sotto, perché soffro di vertigini e se dopo tutto quello che ho passato mi prende un mancamento, cado di sotto e muoio? Addio effetto fatalistico.

Mi fermo, chiudo gli occhi. Aspetto un segno, qualunque segno, e me ne sto lì, impalato sulla corsia d’emergenza, con la mano sul guardrail e gli occhi chiusi, quando ecco, mi pare di sentirlo. Lo avverto prima con tutto l’essere finché non mi sembra di percepirlo anche nell’aria che respiro. Sì, sì. È un odore familiare, non lo identifico ma lo riconosco. Mi dice che ammazzarmi sarà come tornare a casa.

E allora mi butto sulla sinistra, passando dalla corsia di emergenza alla carreggiata. Dietro di me l’inchiodata, la puzza di gomme bruciate, la corrente d’aria mi inonda, mi schiaffeggia. E poi mi sorpassa di lato.

L’aria mi passa accanto. E poi anche il rumore. Mi travolge a destra, sulla corsia d’emergenza e io faccio appena in tempo a vedere un pandino verde privo di controllo che si infrange contro il guardrail e capitombola giù per la scarpata.

Dietro di me una lunga fila di auto, urla, clacson, la gente scende dalle macchine e mi supera per sporgersi, per vedere chi è riuscito in quell’intento che era il mio.

Mi avvicino al guardrail per guardare di sotto e inspiro l’aroma al patchouli, nauseabondo e familiare, frutto di cento candele stipate da anni nel pandino verde di mia zia, che ora si mischia alla puzza di benzina, gomma bruciata e carne arrostita, giù, giù, in fondo al burrone.

Eleonora Capparella

Blam

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