La verità su tutto di Vanni Santoni: il trascendente nel Ventunesimo secolo, tra deminutio e spettacolarizzazioni. Recensione
Ci si può chiedere quanto abbia senso, in un tempo che si sottrae dinanzi alle grandi domande, parlare di Bene e di Male, di ricerche spirituali o folgorazioni improvvise, come ha fatto Vanni Santoni nel suo ultimo libro, intitolato La verità su tutto (Mondadori, 2022). Si tratta, di certo, di un’impresa originale, che forse in pochi tenterebbero; e non perché sia effettivamente sparito il bisogno di trovare qualche verità, riprendendo le parole di Santoni – anzi, se questi ultimi anni ci hanno insegnato qualcosa, è proprio quanto sia disperata la necessità di rintracciare e aggrapparsi a qualsiasi ideologia, anche la più assurda, a patto di spiegare le incognite. Piuttosto, è la difficoltà che si nasconde dietro alle questioni con l’iniziale maiuscola, a scoraggiare da un confronto di questo tipo. Tanto più, allora, cresce l’interesse verso una narrazione come quella di Santoni, che, a sentire Nicola Lagioia, costituisce «un viaggio verso il cuore del Ventunesimo secolo».
La verità su tutto di Vanni Santoni: la trama del libro
Il romanzo inizia in maniera atipica, per un libro che vuole parlare di Bene e Male; a raccontare è uno scrittore che ha finalmente ottenuto l’opportunità di conoscere una certa santona di cui si parla molto e contraddittoriamente: «Era come un verbo segreto che passava di bocca in bocca. Vai dalle “see gemelle”, vai da Shakti Devi e Kumari Devi: loro custodiscono la verità».
Cleopatra, conosciuta dai più come Shakti Devi, accoglie l’intervistatore pronta a raccontare la propria «verità su tutto», come negli show televisivi più popolari: da quel poco che riusciamo a capire è infatti la superstite di una serie di eventi innominati che hanno avuto risonanza mondiale e che si chiariranno soltanto procedendo nella narrazione. Strano, pertanto – o atipico, se volessimo richiamare quanto si diceva in apertura – che a introdurre il discorso sia un episodio che non solo apparirebbe ai più di poca importanza, ma che ha persino a che fare con la volgarità più bieca: un elemento, questo, che di certo non si mescola bene all’immaginario di un percorso verso il trascendente come quello che Cleopatra si appresta a spiegare. È infatti davanti a un pc, in un momento di solitudine, che la protagonista si scontra con la questione del Male: alla ricerca del perfetto video a luci rosse, le sembra di riconoscere in un frame la sua ex fidanzata Emma – la stessa che aveva brutalmente lasciato per intraprendere una relazione con la sua attuale compagna. A colpirla, però, non è tanto l’immagine di Emma nuda, quanto il pensiero che possa essere una sua responsabilità ciò che ha sotto gli occhi, ed è qui che si palesa, per la prima volta, la possibilità del Male, della colpa – e se questo fosse accaduto per causa mia? Se mi fossi comportata diversamente, cosa sarebbe accaduto?. Le domande sono insolvibili, ma a Cleopatra in fondo non interessa trovare davvero una risposta: le interessa, piuttosto, ciò che quell’evento rivela di sé e del proprio vissuto, e quindi l’eventualità che abbia usato la propria posizione per ferire – più o meno volontariamente – chi le stava accanto, in una maniera che le appare, solo in quel momento, assolutamente egoistica.
Filosofia, letteratura, spiritualità
Inizia così un viaggio a ritroso nel tempo, per setacciare tutti quei frangenti in cui la protagonista ha assunto il ruolo di carnefice: un colpo inflitto con sadismo, prima, uno scherzo estivo che ha avuto esiti disastrosi, poi. Cleopatra cerca di mettere le toppe, ma soprattutto decide di voler capire di più rispetto a quelle grandi categorie che appartengono al campo della morale: si iscrive quindi a Lettere e inizia a frugare nelle biblioteche, arrivando a costruire un itinerario personale filosofico e narrativo che passa da Thomas Mann a Simone Weil, da Goethe a Nietzsche, fino alle filosofie orientali e alle dottrine vediche. Solo quando abbandonerà definitivamente la vita per come l’aveva conosciuta, tuttavia, l’iniziazione potrà dirsi davvero effettiva – del resto, anche San Paolo scriveva: «Ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto […] considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo» (Filippesi, 3:8).
Una narrazione di qualità
Il più grande pregio del romanzo di Santoni sta sicuramente nella qualità letteraria della narrazione, che si offre al lettore senza intoppi, giostrandosi tra digressioni e incisi, spiegazioni tecniche e riflessioni sul trascendente. La raffinatezza stilistica di un libro si misura nei particolari, e nella capacità, propria solo di chi ha frequentato con dedizione la parola letteraria, di reggersi in equilibrio costante tra una prosa semplice eppure mai semplicistica, scorrevole ma controllata. Santoni, anche in questo romanzo, si muove magistralmente tra queste polarità, attestandosi tra gli scrittori più consapevoli del panorama italiano.
Il problema del trascendente nel Ventunesimo secolo, all’insegna della deminutio e delle spettacolarizzazioni
Tornando al contenuto di La verità su tutto, dicevamo all’inizio quanto sia complesso maneggiare – senza scivolare nella banalità – le grandi domande, in particolar modo dopo la lezione postmoderna. Vanni Santoni ha anzitutto, dalla sua, una conoscenza vastissima della letteratura mondiale – al punto che è difficile discernere la sua voce dal marasma di citazioni e richiami che si nascondono tra le righe del romanzo; ma è, più di ogni altra cosa, un vero appassionato di tutto ciò che ha a che fare con la filosofia e l’orientalismo, ed è quindi piuttosto il lettore a sentirsi impreparato, scoprendosi immerso in un mondo di cui, fino a quel momento, aveva conosciuto solo la superficie. Se, da una parte, una stratificazione culturale di tale ampiezza potrebbe intimidire chi si appresta a iniziare la lettura di questo romanzo, dall’altra, la mescolanza controllatissima di questi elementi con la più banale quotidianità rende il libro davvero contemporaneo e godibile. Le pagine di questa storia sono infatti affollate da personaggi minimi che sporcano di continuo la narrazione con il loro parlato al limite del vernacolo, e persino i più grandi santoni – rispetto ai quali si matura un’aspettativa sempre maggiore, man mano che si procede nel racconto – vengono ritratti in prima istanza come personae, nel senso più primordiale di maschere, fantocci: interpreti di una narrazione a cui si asservisce tutto il resto (e che, tra l’altro, proviene spesso dall’esterno, più che da una rinnovata esperienza interiore). Non è un caso, allora, che il titolo riecheggi le modalità retoriche degli show televisivi più insulsi: nel Ventunesimo secolo anche la ricerca più autentica sembra essere destinata a trasformarsi in spettacolarizzazione o, per meglio dire, in una recita di cui si possono imparare, minuziosamente, le regole e le tecniche più raffinate. E nessuno si può dire al riparo da questa deminutio che governa il romanzo, neanche i grandi autori novecenteschi, costretti ad abbandonare la loro autorità per trasformarsi in interlocutori privati – come il fantasma di Simone Weil, che ogni tanto fa capolino nella narrazione.
Le grandi questioni calate nella realtà contemporanea
È in questa cornice che pone il problema del Potere, di cui si legge nella quarta di copertina: un tema che solo apparentemente sembrerebbe dispiegarsi nell’ultima sezione del romanzo, e che invece si insinua sin dalle prime pagine nelle domande che Cleo pone a sé stessa. Cos’è, infatti, il Male, se non un esercizio di potere? Di conseguenza, in che termini differisce l’azione di una setta sul proprio seguito dai meccanismi gerarchici che si vengono subdolamente creando in una relazione – sia essa d’amicizia, d’amore, didattica? –; e in che modo può – se ciò è possibile – convivere il Potere con il Bene, senza che quest’ultimo ne venga sporcato? Le domande che si pone Santoni sono tutte qui, e al lettore sta il compito di provare a sbrogliare i nodi del romanzo. Il più grande merito di La verità su tutto resta, comunque, l’aver dato vita a un’indagine che mette in relazione certe costanti universali con la realtà contemporanea – una realtà fatta di appartenenze provvisorie ed entusiasmi disperati, spettacolarizzazioni e solitudine, bisogno del trascendente e rovesciamento categoriale. Se sia del tutto riuscito questo esperimento non è, in fondo, la cosa più rilevante: importa, piuttosto, che un romanzo così sia finalmente stato scritto.
a cura di Rebecca Molea