Il racconto della domenica: Stelle cadenti di Giuseppe Tursi

 Il racconto della domenica: Stelle cadenti di Giuseppe Tursi

Illustrazione di Francesca Vitolo

Scendo le scale di corsa accompagnato dalle urla di mia madre: torna qui, non ho ancora finito, dove cazzo scappi!

Esco dal portone. È buio. Piove. Cammino sotto il portico che collega gli edifici tutti identici del Cep. Un gruppo di ragazzi accatasta mobili divelti, sedie, tavoli di plastica.

Mo’ vedi che inferno che scoppia, dice uno di loro con il cappuccio a nascondergli il capo.

Più avanti, da dietro un pilastro, si materializza Danny. In realtà il suo nome non è Danny, ma noi lo chiamiamo così per la sua somiglianza a Danny DeVito. Danny è sempre vestito di bianco, in uno smoking impeccabile.

Dove vai così di fretta, mi fa.

Al parco, mi aspettano gli altri.

E ti presenti a mani vuote?

Non ho soldi con me.

Non ti preoccupare, sai che non ci sono problemi, quando torni me li dai. Ti conosco, so dove abiti. Strizza un occhio, e mi sorride. Mi allunga del fumo che prontamente metto in tasca. Ringrazio Danny, allungo il passo e mi dirigo verso il parchetto. Oltrepasso il cancello di entrata. Le panchine sono segnalate da lapilli incandescenti che si smorzano nell’oscurità totale del parco. Odore acre. Vociare. Bestemmie. Da qualche parte una musica dai bassi profondi.

Mi accorgo solo ora, mentre cammino, di essere uscito senza giacca. Con me ho solo il cellulare. Sono quasi arrivato alla baracchina dei gelati chiusa ormai da anni. L’unico punto del parco illuminato da un lampione che sfarfalla. Una sagoma raggomitolata è seduta sulla nostra panchina. Mi avvicino. È lei: la mia Cristina. Testa nascosta tra le gambe tirate su fino al petto. Lei alza il viso verso di me. Sta piangendo, o è la pioggia che le riga il viso.

Che ci fai qui, dice sorpresa.

Avevo bisogno di uscire, dico mentre mi siedo.

Anche io. In casa la situazione è insopportabile. Odio tutti. Quel coglione di mio padre, e quella stupida di mia madre che gli va dietro, ancora.

Ti capisco.

Cristina appoggia la testa sulla mia spalla. Io amo Cristina. Amo il suo viso malinconico. Le sue dita affusolate. La pelle bianca, pura. Amo i suoi occhi celesti in contrasto con i capelli corvini. Amo Cristina dalla prima elementare. Da quando le lasciavo bigliettini anonimi nello zaino. Da quando imbrattavo i muri della scuola con il suo nome e un cuore a contenerlo.

Rimaniamo immobili sotto la pioggia che scende lieve sui nostri corpi. Sarebbe il momento buono per dirle quello che provo. Le vorrei dire che non dormo più da tempo perché penso solo e sempre a lei. Le vorrei dire che nelle notti limpide, su questa stessa panchina, osservo il cielo in cerca di stelle cadenti che possano esaudire il mio desiderio: stare con lei a vita. Le vorrei dire che insieme potremmo sopravvivere a tutto il marcio che ci circonda. Ma con la sua presenza le parole mi rimangono arpionate in gola. Non vogliono uscire. Paura. Ecco cosa mi blocca. Rimaniamo immobili per un tempo indeterminato. La pioggia ha smesso di cadere. Si sente il cigolare dei pedali arrugginiti di Tommy che attraversa il parco in bici. Mentre ci passa di fianco enuncia, come una litania, la sua merce in vendita: CocainaEroinaAmfetamineMescalinaKetaminaLSD.

Non mi rendo conto del tempo che passa. Sentire le sue gambe sfiorare le mie, la sua testa appoggiata alla mia spalla, mi fa dimenticare tutto: delle ombre, del freddo, dei miei genitori, di questo posto. Esistiamo solo noi. Fino a quando delle braccia vigorose non ci prendono alle spalle. Damiano. Occhi penetranti, fisico atletico. Fa il giro della panchina e si siede tra me e Cristina. Ci abbraccia. Cristina ha un sussulto. L’espressione del suo viso cambia. Un sorriso impercettibile ma che le ravviva il viso. Damiano si volta verso di lei e le dà un bacio. Un bacio vero.

Sei il primo che lo sa, mi fa Damiano.

Sono incredulo. Damiano e Cristina. La mia Cristina e Damiano.

Volevamo aspettare di dirlo anche agli altri, dice Cristina.

La prima regola era di non mettersi mai con qualcuno del gruppo, continua Damiano.

Non tutti capirebbero, termina Cristina. E mi guarda con i suoi occhi celesti che ora sembrano ancora più lucenti.

Dai festeggiamo, mi fa Damiano, qualcuno ha del fumo?

Non so perché ma lo faccio. Prendo dalla tasca il pezzo che mi ha dato Danny. Damiano rolla la canna e la accende. Una nuvola bianca si disperde nell’aria. A turno fumiamo. Ma più fumo più la rabbia mi scuote. Sento il mio corpo implodere dall’interno. Le sagome di Damiano e Cristina si fanno vacue, fondendosi. Ho bisogno di rimanere solo, penso, ma lo dico anche ad alta voce mentre mi alzo.

Ho bisogno di rimanere solo.

I due mi guardano divertiti. Fisso per l’ultima volta gli occhi di Cristina.

Mi incammino senza meta. Penetro l’oblio del parco. La rabbia mi spacca il petto. Come per osmosi le nuvole si squarciano aprendo uno spiraglio da cui fa capolino la luce opalescente della luna. All’improvviso le vedo arrivare. Una pioggia di stelle cadenti illumina il cielo lasciando scie luminose dietro di loro. Sbigottito, rimango qualche istante a osservare lo spettacolo che ho davanti agli occhi. Con tutta la rabbia che ho dentro esprimo i miei desideri urlando: vorrei che mia madre sparisse, come ha fatto mio padre anni fa. Vorrei che il mio mondo fosse inghiottito dalle fiamme. Vorrei che Danny non mi cercasse più, che non mi obbligasse a prendere la sua merda. Vorrei che Damiano morisse, adesso, in questo istante. Dopo poco, lo spiraglio nel cielo si richiude. Sono circondato dalle tenebre. Da ombre che ridono e si prendono gioco di me. Corro fuori dal parco. Mi dirigo verso casa. Sono stordito e infreddolito. Ho gli occhi gonfi di lacrime. Quando volto l’angolo che dà sulla via di casa, vengo investito da un odore di bruciato. In fondo, si eleva nell’aria una nuvola di fumo nera e densa. Vado verso l’incendio. Un capannello di persone osserva attonita le fiamme che divorano l’intera palazzina. Un altro gruppo, poco più in là, circonda un uomo sdraiato a terra immobile. Riconosco solo le scarpe a punta di Danny. Rimango impassibile mentre guardo il secondo piano, dove abito, già totalmente avvolto da lingue di fuoco. Alcune persone, all’ultimo piano, si affacciano alla finestra. Urlano. Supplicano. Si sentono, in lontananza, sciami di sirene che si avvicinano sempre più. Mi volto, e con la testa china passo lento in mezzo alla folla disperata. Alle mie spalle avviene un’esplosione. La gente grida. Piange. Detriti infuocati si espandono nel cielo. L’aria è scossa dalle prime sirene che sopraggiungono. Cammino senza mai voltarmi indietro. Sono lontano dal fumo, dalle fiamme e dalla disperazione quando il cellulare squilla. Cristina, mi appare scritto sul display. Rispondo.

Ti prego, dice Cristina con la voce straziata, ti prego vieni subito qui, Damiano… Damiano non si sente bene.

Giuseppe Tursi

Blam

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