Il racconto della domenica: Channel 4 di Giacomo Cavaliere
Mi ha fatto piacere uscire un po’ di casa. Mi ha accompagnato Flora, con una di quelle macchine con autista che hanno rimpiazzato i tassisti. È stata tutto un diluvio di particelle pronominali riflessive: trovarsi, perdersi, centrarsi, scoprirsi; piramidi di subordinate su quanto le relazioni asfissino i suoi sogni; quanto ci si senta ingabbiati a stare accanto a qualcuno che ci ama o, peggio ancora, che amiamo; sul fidanzato che non le permette di sbocciare come vorrebbe; su quanto sia difficile sfondare con i musical in un mondo in cui la recitazione non ha più nulla di vero – e che è un ambiguo rapporto coi musical. Suo padre ha preso tutti gli appuntamenti e consegnato l’itinerario all’autista. Li vedo quando l’incombere delle ricorrenze lo rende indispensabile, mai senza una ragione calendarizzata. Natale, Pasqua, qualche volta anche al mio compleanno e, quand’era piccola, a quelli di Flora. Un vantaggio dell’essere vecchi è che non si è più obbligati a fingere di apprezzare feste e consanguinei.
Mai stato un grande uomo di famiglia, e marito non lo sono stato per molto, per sua fortuna. Devo ammettere però che la piccola mi mancava. Non più tanto piccola, a dire il vero. E mi è mancata anche di più dopo aver tentato di presentarmi a questa sua nuova versione: una nave senza timone che, per qualche inspiegabile motivo, non teme la deriva ed è sicura di arrivare esattamente dove desidera, sebbene non sappia cosa desideri. Ha talmente tanti rapporti umani che nemmeno io sono riuscito ad accumulare in quarant’anni. Le voglio bene, a Flora, anche se ne volevo di più alla nipote che conoscevo. Suppongo che la sua generazione la consideri un tipo brillante – qualunque sia il metro di oggi. I criteri di giudizio della simpatia risentono parecchio del tempo. L’umorismo è il primo a invecchiare.
Quest’anno meditavo di andare al cinema, alla Vigilia. Quando ero ragazzo, durante le feste, all’Astra, proiettavano sempre La vita è meravigliosa. Non mi sarebbe dispiaciuto rivederlo, a distanza di decenni, nel giorno dell’anno che il buon signore ha deputato alla visione di uno e un solo film di Frank Capra. E di Una poltrona per due – per tutti quelli che rimangono a casa. Non ho mai visto più di cinque persone in sala. Spesso mi è capitato di trovarmi in un cinema aperto solo per me, una delle più gloriose sensazioni alla portata di un uomo qualunque.
Mio figlio e sua moglie hanno insistito perché non passassi la Vigilia da solo, come se fosse un giorno diverso da quello precedente. Così ho accettato, pensando alla porzione della soffitta in cui avrei tumulato lo scaldamaterasso elettrico e la macchina per la frittura a vapore che mi avrebbero regalato. Stavolta però mi hanno regalato esattamente quello che mi sarei aspettato se avessi nutrito un qualche genere di fiducia: un cofanetto in alta definizione con tutte le stagioni di M*A*S*H*. Scartato l’involucro di carta lucida color lavanda, mi è scivolata tra le gambe una busta di carta che Flora mi ha aiutato raccogliere. All’interno della busta, cinque opuscoli di grafiche diverse, simili a quelli dei villaggi turistici, con donnine allegre in grembiule e giovani aitanti in pose da hostess e paragrafi coloratissimi con lunghi decaloghi di comfort. Non erano villaggi vacanze, non il genere di vacanza che inizia con una fine prestabilita.
Fingo di non capire riparando dietro l’alibi della demenza senile e del restringimento arterioso – le stesse attenuanti che risparmiano loro l’onere di ascoltarmi. Non sono ospizi o ricoveri, sono strutture specializzate nell’accudire gli anziani, e non perché loro non sappiano più badare a loro stessi, ha detto mio figlio. E allora? Sono come degli alberghi a cinque stelle. I clienti saprebbero cuocere una bistecca e rifarsi il letto, ma pagano qualcuno che lo faccia per loro, e meglio. È il mondo.
Giusto, il mondo. Ma non ero del tutto convinto.
Flora si è offerta di leggermeli. Poi ho chiesto perché ci tenessero tanto. Beh, è ovvio, hanno risposto. Non ci si sente sicuri a stare in giro tutto il giorno, con un padre così vecchio in casa, e senza moglie. Abbiamo divorziato quarant’anni fa, sono sempre stato da solo. Non l’ho mica uccisa. Sarebbe molto meglio anche per me, per il mio morale, per le mie giornate. Troppa solitudine accorcia la vita, papà. E poi non usi nemmeno il cellulare, ha rincarato. È una battaglia che non ho mai potuto vincere. Il giorno dopo mi ha telefonato Flora per avvisarmi degli appuntamenti, mi aspettavano già prima di Capodanno, se fossi stato disponibile. Disponibile? Certo, come potermi inventare qualcosa da fare? È venuta a prendermi di prima mattina. Quando la macchina ha parcheggiato davanti casa, stava dormendo sul sedile posteriore. L’ho svegliata con una carezza che l’ha colta di sorpresa; è esplosa in un entusiasmo sopra le righe anche per lei. Non riuscivo a replicare il suo vigore; lei ha spostato il baricentro della conversazione dai benefici delle pensioni per anziani ai segreti dell’esistenza che ogni giorno riusciva a estorcere alle sue giornate. Poi, ha preso il telefono e ha incollato bocca e occhi sul display. Non avevo idea di quante conversazioni simultanee e senza argomenti comuni si potessero portare avanti. Siamo stati in giro fino a tardo pomeriggio, l’ho portata a bere un darjeeling – o forse lei ha portato me – e siamo andati a casa.
Abbiamo pranzato alla San Barbato, il migliore degli istituti, secondo i parametri di pulizia delle superfici, grandezza dei televisori, finiture del linoleum, odore dei disinfettanti. E il più importante di tutti: consistenza del cibo. Il vassoio dei visitatori non somigliava molto a quello servito tre volte al giorno ai degenti. Ho sbirciato dentro qualche camera prima di essere richiamato all’ordine dal nostro cicerone azzurrino, un’infermiera spigolosa ma gentile che ci ha tenuto a presentarmi a tutte le operatrici sanitarie asiatiche della struttura. Due binari di neon correvano lungo i soffitti dei corridoi, altoparlanti ovunque e porte tra i reparti comandate in remoto dalle postazioni degli infermieri. L’intrattenimento musicale offerto dagli istituiti comprende sempre il rock ’n’ roll degli esordi, la colonna sonora di Happy Days, i grandi classici dello swing e la lirica, ma niente di ciò che scorre nel mezzo. Tutti i televisori, di ogni stanza o sala ricreativa di ciascuna struttura visitata, erano accesi.
Tutti sintonizzati su Channel 4. Una certezza cristologica, come il palinsesto televisivo della Vigilia di Natale. Tutti, sempre, sullo stesso canale. Nessun telecomando sui tavoli o sui comodini, tutti custoditi sottochiave nelle guardiole degli inservienti. Ammesso che i televisori dei ricoveri non escano dalla fabbrica con una sorta limitatore. Può essere che il mondo sia sempre andato così, e che non vi sia modo d’accorgersene prima di trovarsi a succhiare una mela cotta in posti come questo. Tre ore di salute, benessere e nutrizione ogni mattina, seguiti dal ventennale programma di contenziosi giudiziari tra vicini e parenti alla presenza di un giudice togato, di durata variabile; ottanta minuti di repliche di Murder, she wrote, quattro edizioni del telegiornale, quarantacinque minuti di soap guatamalteco-spagnola, un classico del cinema western ogni pomeriggio, centoventi minuti di giochi a premi prima dell’inizio della programmazione serale che nessuno riuscirà mai a finire. Prima che l’impianto generale si spenga e rimangano accese solo le luci di sicurezza alla base delle pareti foderate di plastica. Deve pur esserci un canale che accompagni i vecchi alla morte.
Ma è un peccato dover lasciare tutto da svegli.
Giacomo Cavaliere