Kitöltest di Deborah D’Addetta: racconto vincitore del premio letterario L’Avvelenata 2021
1910, Budapest
Il Danubio era quasi ghiacciato.
La sua superficie, alla luce della luna crescente, luccicava. Si potevano vedere una moltitudine di crepe tra i suoi blocchi di ghiaccio non ancora solido e le luci arancioni del Széchenyi Lánchíd che vi si specchiavano, come miliardi di topazi lanciati nell’acqua per dispetto.
Il Ponte delle catene, come lo conoscevano gli ungheresi: un mostro di ferro e pietra lungo trecentottanta metri, il primo ad aver unito quei diavoli di Buda a quelli ancor più diavoli di Pest. Eva si ritrovò a pensare che avessero fatto un errore a costruirlo: era convinta che la gente stesse meglio quando ognuno se ne stava sulla propria sponda e non si impicciava dei fatti dell’altra. Mentre formulava quel pensiero, dalla sua bocca uscirono folate di fumo e vapore, una nuvola biancastra che l’avvolse come un fantasma antico e lento.
Faceva freddo, quell’inverno. Non che fosse una novità per Budapest. A distanza di vent’anni, ricordava ancora quando, da piccola, il gelo le aveva congelato le dita dei piedi. Le sue e quelle di Franz: tutte tranne l’alluce sinistro. Lei lo aveva preso in giro per tutto il tempo della convalescenza, ma Franz non era il tipo di ragazzino che amava lasciarsi beffeggiare, così, alla prima occasione, si era vendicato, tagliandole una ciocca di capelli mentre dormiva. Eva avrebbe voluto ammazzarlo e ci aveva anche provato, lanciandogli addosso un pentolino d’olio bollente: l’unica cosa che le aveva impedito di ustionarlo era stata zia Nagynéni, la sorella di suo padre. Per un qualche miracolo era riuscita a spingere via Franz, evitando una catastrofe.
Sorrise dolcemente a quel ricordo, poi prese un tiro dalla sua sigaretta di contrabbando che sapeva di paglia e foglie d’inverno. Istintivamente, si portò una mano vicino al collo, sfilando dalla sua treccia bionda un ciuffetto più corto rispetto al resto della chioma. Le si arricciava sempre, inanellandosi intorno all’orecchio. Era il loro pegno. Un dispetto che era diventato una promessa.
Una folata di gelo la fece rabbrividire ma, tenacemente decisa ad aspettare lì, si strinse nella sua sciarpa di lana stinta, una volta color cioccolato, un cioccolato che ora virava verso il vomito. Eva l’adorava: Franz l’aveva rubata per lei a una vecchia gallina imbellettata, una qualche nobile di antiche casate, tutta grinze, rossetto rosso e profumo rancido di rose. Andava segretamente fiera di quel colpo. Indossarla la faceva sentire vincente, forse perché, mentre Franz gliela strappava di dosso, la donnona era caduta, sporcandosi il vestito azzurro nel letame del suo stesso cavallo.
Il ricordo di quelle intrepide risate e della loro ancor più intrepida fuga era ancora vivido.
Un rumore improvviso di zoccoli la fece sobbalzare: si voltò a guardare la coppia di cavalli neri che le stava passando di fianco e cercò di scansarli con cura. Eva non amava molto i cavalli. Nonostante ciò, gli lanciò uno sguardo speranzoso, indispettita da quell’attesa, poi si diede della stupida: i poveri non viaggiavano mai in carrozza, se non per andare in galera.
Si voltò verso il fiume, con l’intenzione di accendersi l’ennesima sigaretta, quando un fruscìo le annunciò l’arrivo di qualcuno. Senza che avesse la possibilità di girarsi, un cappotto le si aprì intorno, avvolgendola completamente. Si ritrovò ingabbiata tra la stoffa ruvida e un corpo caldo e solido, senza spaventarsi nemmeno per un istante. Le bastò sentirne il profumo per capire chi fosse.
Sorrise, appoggiando la testa all’indietro, sulla sua spalla. Non disse niente, ma inspirò stringendosi ancora di più a lui, che sapeva di tabacco, di spezie e di muschio umido. Quella notte, però, c’era qualcos’altro che lo addolciva, una sorta di nota densa, appiccicosa.
Una violenta scarica di gelosia irrigidì Eva.
«Hai portato il mio kurtos?» gli chiese, rude.
Lui non rispose ma le stampò un rumoroso bacio sulla guancia.
«Di’, me l’hai portato o no?».
Ancora un bacio sulla guancia. Lei si mise a ridacchiare e cercò di sfuggirgli.
«Allora! Me lo dai? Sono morta di freddo per aspettare il mio dolce!»
Il viso di Franz s’indignò e, per tutta risposta, le pizzicò il naso. «Piccola ingrata. E io che pensavo che stavi qua a piangere d’amore per me.»
«Per niente» ribatté lei, scacciandogli la mano dal viso.
Franz rise: sapeva che non era vero, era solo troppo orgogliosa per ammetterlo. Sospirando, si mise a frugare nella tasca destra del suo capotto e ne tirò fuori un rotolino di pasta sfoglia, ricoperto di zucchero. A quella vista, gli occhi verdi di Eva scoppiarono d’ingordigia.
«Dammi!» esclamò, afferrandolo, «È alla vaniglia, sì?»
Franz non ebbe modo di rispondere perché prima che potesse farlo lei ne aveva già mangiato metà. Le avvolse le spalle con un braccio e la spinse a passeggiare.
«Come hai fatto a trovare un kurtos a quest’ora?» chiese Eva con le labbra sporche di crema. «L’hai preso giù in piazza Zsigmond?»
«Macché. Me li ha regalati György.»
«Quello è uno schifoso: zia Nagynéni dice sempre che ci sono i topi nel suo negozio.»
«Bella mia, qui a Budapest i topi ci sono pure nel gabinetto della regina.»
Eva sbuffò. «E poi cosa vuol dire me li ha regalati? Quanti ne hai buttati in quella pancia da bolscevico che ti ritrovi?»
Franz scoppiò a ridere. «Meglio che non te lo dico. Va a finire che mi ammazzi di botte.»
«Ti ammazzo di botte lo stesso. Dov’è che sei andato a spasso? Dove stanno le puttane? Hai un odore strano addosso.»
Franz preferì non parlare. Le strinse il braccio intorno al collo e l’attirò a sé facendola voltare verso di lui. Si fermarono sotto un lampione a gas, le sagome dei loro corpi stagliate a terra come carbone sulla neve candida.
«Tu sei proprio una scema ignorante» le disse tirandole una treccia per avvicinarle il viso al suo.
Poi la baciò. Il loro fiato ghiacciato si mescolò alle lingue ardenti incendiando quell’angolo di città. Dopo un po’, Eva si staccò dalle labbra di Franz malvolentieri e continuò a tenerlo stretto a sé.
«Lo sai che mi ha detto Rózsa?» gli disse.
«Chi? Quella zingara di una cartomante?»
«Non è una zingara. È solo più povera di noi.»
«Beh?»
Eva prese fiato, segno che stava per fare un discorso abbastanza lungo.
«Mi ha letto la mano e ha detto che avrò quattro marmocchi» iniziò a dire, entusiasta. «Tutte femmine, ci pensi? Come le sfamiamo quattro femmine? E poi mica voglio farle andare in giro vestite di cenci? Non abbiamo soldi per quei fronzoli da ricconi, ma non possiamo mica buttarle in strada con il culo di fuori? Però… se hanno i capelli come i miei e gli occhi come i tuoi vedrai che angioletti! Faranno girare la testa a tutti quei damerini davanti al Teatro Vígszínház!»
Franz mantenne un religioso silenzio, che Eva prese come un incoraggiamento. «Senti! Ho già ventiquattro anni, io! Prima di sposarmi vuoi farmi crepare?»
«Io non ci credo a quella zingara puzzolente.»
Eva s’indispettì: gli mollò un pugno sul petto, poi si mise a camminare a passo svelto davanti a lui. «Non capisci mai niente! Zotico, stupido!»
Franz se la rise sotto i baffi. Conosceva Eva: aveva imparato a lasciarla sbollire, lei che s’indispettiva sempre per un nonnulla.
«Questo ha intenzione di farmi diventare vecchia» borbottò. «Lo diceva mamma mia che dovevo lasciarti e sposare quel grassone di Ferenc Pap! A quest’ora qua già avevo cinque anelli d’oro al dito e cinque figli da allattare!»
Franz sospirò: si sorbiva quella storia di Ferenc Pap tutte le volte che gli capitava di litigare con Eva. Lei sosteneva che da piccola era stata promessa a quel fantomatico conte e che, per amor suo, aveva lasciato dopo anni di fidanzamento. Ovviamente Franz non credeva a una sola di quelle parole.
«Ferenc Pap!» continuò a biascicare Eva, dandogli le spalle. «Grasso come una vacca spagnola ma pieno di fiorini!»
Franz, stanco di quella stupida baruffa, si mise a correre raggiungendola in pochi istanti: l’afferrò per un braccio attirandola in un vicolo buio e umidiccio, al riparo dai lampioni a gas che fiorivano sul lungofiume. Senza dire una parola, con lo sguardo acceso d’irritazione e impazienza, la costrinse a schiacciarsi contro un muro. Gli occhi verdi di Eva s’inchiodarono ai suoi. Lui vi si specchiò: la fronte liscia e piena, i capelli scuri, che gli sfioravano le spalle, i baffetti ispidi e gli occhi incavati color delle tempeste invernali.
Eva provò a dire qualcosa, ma lui le mise una mano sulla bocca.
«Adesso piantala di ciarlare» sussurrò cominciando a tirarle su la gonna lunga. «Mi hai scocciato.»
Eva aggrottò le sopracciglia sottili, palesemente contrariata, ma non appena sentì la mano di Franz sfiorargli la coscia destra, ammutolì.
«Stiamo a vedere se la tua brutta zingara aveva ragione.»
Eva si voltò preoccupata verso la strada. La mano dura e callosa di Franz, però, la convinse a lasciar perdere. La gonna e tutte le sottane si arricciarono intorno alle sue cosce, scoprendone una fasciata da una calza di lana che le arrivava quasi all’inguine. Franz la scostò leggermente, incontrando la pelle delicata di Eva.
Un miagolio di un gatto nero li distrasse per un attimo: Eva lo guardò osservarli, incuriosito da quell’attività bizzarra, probabilmente aspettandosi del cibo che non sarebbe mai arrivato.
Franz non perse tempo: sussurrò qualcosa in una lingua incomprensibile, baciandole delicatamente il collo e mandando scosse elettriche giù per la schiena di Eva, e fino ai talloni. Lei sapeva che quando iniziava a parlare nel suo dialetto da bambino, voleva dire che era arrabbiato. Arrabbiato o eccitato. E quando la prendeva così, senza tante cerimonie, non c’era alcun dubbio che fosse entrambe le cose.
I loro gemiti discreti vennero assorbiti da un’umidità che si sollevò dal fiume solo per loro due, per celarli alla vista dei pochi passanti che c’erano. Si amarono in fretta, con irruenza. Infine Franz si staccò da lei, tirandosi su le brache. Le porse il suo fazzolettino da taschino rubato a chissà chi, e poi la aiutò a sistemare le sue gonne stropicciate. Quando entrambi ritrovarono un po’ di decenza, scoppiarono a ridere.
«Potevamo finire in quella fogna di prigione di Vàc, se qualcuno ci scopriva» commentò Eva, stirandosi la gonna con le mani.
«Nessuno di noi andrà in galera» replicò Franz, attirandola a sé. «Tu sei troppo bella e io troppo furbo.»
«Sei un fesso se pensi che una faccia graziosa impietosisca quei bastardi.» Sorrise mentre lo diceva, così Franz la baciò di nuovo.
«Ti amo, Eva Szabó. Sei la mia vita.»
Lei sbuffò. «Piantala con queste sdolcinatezze.»
Franz in risposta le picchiettò un dito contro il petto, all’altezza del cuore. Eva capì ma preferì non replicare. Si presero per la mano e seguirono la strada che serpeggiava lungo il fiume. Con l’avanzare della notte, il ghiaccio si stava cementando: lei sperò che l’indomani avrebbero potuto pattinare sul Danubio. Mentre camminavano, si accesero una sigaretta o due, di quelle che Franz recuperava chissà dove. Eva gliel’aveva chiesto una volta, ma lui rimaneva sempre evasivo, dicendole di farsi i fatti suoi.
Abitavano in un buco nella zona della Collina delle Rose. Anche se, a dirla tutta, non c’era niente di romantico in quel quartiere, a parte le voci sguaiate e le parolacce sconce degli stranieri a tutte le ore, ma a Eva piaceva, e Franz aveva trovato una buona occasione scambiando una parte dell’affitto in bottiglie di whiskey.
Quando entrarono in casa, faceva un freddo inumano: Eva batteva i denti stringendosi nella sua nobile sciarpa, così Franz iniziò ad accendere il fuoco nel camino. L’appartamento era minuscolo: uno stanzino quadrato e una sola grande finestra, il tetto spiovente, che rendeva lo spazio ancora più stretto, un letto piccolo e pieno di bozze nell’angolo sinistro. Gli unici elementi che ingentilivano tutto erano il camino in pietra bianca e un cucinino abbastanza moderno, di un colore brillante, quasi cacofonico in quel grigiore.
«Faccio il tè?» chiese Franz. «Ci butto dentro un po’ di Pálinka, così ti si scaldi.»
Eva, seduta sul letto e tutta rannicchiata, tremava: «Quello che ti pare, basta che ti muovi».
Dopo mezz’ora, casa, acqua e cuori erano abbastanza caldi da trovare in quella gelida serata di novembre un po’ di conforto. Franz corresse il tè di Eva con la Pálinka, mentre per lui riempì un bicchiere assoluto. Nella stanza, complice anche il fuoco del camino e il vapore dell’acqua che aveva bollito, si sprigionò un profumo di prugna, pera e albicocca.
Bevvero in silenzio, guardando dei fiocchi di neve cadere dal cielo.
«Vieni, kitöltést, ti canto qualcosa» disse infine Eva, invitando Franz a raggiungerla sul letto.
Lei lo appellava sempre così: “contadinotto”, prendendolo in giro per le sue origini. Mentre lei nasceva in città, lui si ammazzava nei campi, per sfamare la moltitudine della sua famiglia. Si appoggiò al muro prendendo la testa di Franz in grembo. Prese a infilargli le mani tra i capelli mentre lui le accarezzava un ginocchio. Iniziò a canticchiare una melodia leggera, in una strana lingua spigolosa. Intanto la neve cadeva, lenta e silenziosa, il fuoco ardeva, le mura erano calde e loro due erano ancora insieme.
Eva continuò a canticchiare e, quando si rese conto che Franz si era addormentato, tirò su di lui la coperta di lana e continuò a passargli le dita tra i capelli. Erano sporchi, ma non ci badava. Per uno scrupolo di coscienza, si tastò le trecce, scoprendole abbastanza pulite da evitare di sprecare l’acqua per un’altra manciata di giorni. Inevitabilmente, le sue dita tornarono a quella ciocca difettosa dietro l’orecchio. Era da più di vent’anni che continuava a reciderla: ogni anno, nel primo giorno d’autunno, lasciava che Franz lo facesse al posto suo, come pegno, come simbolo di buona fortuna per i mesi avvenire. Aveva funzionato talmente bene che Eva era diventata scaramantica a quel proposito: era assolutamente certa che, se avesse smesso, il loro amore sarebbe svanito. Su quel letto tutto storto, alla spettrale luce della neve che filtrava dalla finestra, Eva ricordò le prime parole di Franz a proposito di quella sua sciocca convinzione. Lei aveva sedici anni e lui venti.
«Io non capisco proprio perché ti devi rovinare i capelli così» aveva detto lui, seduto su un’altalena.
«Tu non capisci niente di niente, non solo di quest’affare».
«E tu? Che ti tagli ciuffi interi da sola? Come Margit la pazza?»
«Margit la pazza non si taglia i capelli!» aveva esclamato Eva, fermando il suo dondolio. «Trancia la carne al macello.»
«Peggio ancora.»
«Allora tagliameli tu.»
Franz aveva alzato gli occhi al cielo, esasperato dalla sua testardaggine. In fondo, però, aveva gongolato al pensiero che lei avesse voluto affidargli quel compito così sacro.
«Non mi hai ancora detto perché ti sei fissata con questa storia.»
«Ma allora sei proprio un kitöltést! È una cosa per stare sempre insieme, così quando morirò tu saprai dove sono finita»
Franz si era ammutolito cercando di capire il significato profondo nascosto dietro quel semplice insieme di parole.
«Come farai tu, asino che non sei altro, a venirmi a cercare se non hai niente di mio?»
«Quando?»
«Quando io morirò e tu morirai» aveva spiegato, con insolita pazienza. Si era fermata facendo dei buchi nella sabbia con la punta delle scarpette. Aveva tenuto la testa bassa, il viso per metà coperto dai lunghi capelli color dell’oro.
«Le cose belle non durano mai» aveva ripreso, parlando ai suoi piedi. «Alla fine ti stuferai di me e nella prossima miserabile vita che Dio ti vorrà dare, starai con qualche puttanella qualsiasi senza pensarmi»
Franz si era sentito confuso.
«È meglio che muoio stecchita sotto un cavallo piuttosto che farmi scordare da te.»
Erano seguiti dei momenti di imbarazzante silenzio.
«Tu mi devi promettere che mi vieni a cercare» aveva sbottato, con gli occhi lucidi, voltandosi verso di lui. «Prometti!»
«Ma siamo qui adesso, che fantasticherie ti inventi!» aveva replicato lui, quasi esasperato.
«E tra vent’anni?» aveva incalzato lei, il viso acceso di foga. «E trenta? E quando io ne avrò cinquanta, se pure ci arrivo?»
«E allora? Staremo insieme lo stesso!»
«Questo lo dici tu!»
«E chi diamine lo dovrebbe dire? Quello scemo di tuo padre che si ubriaca un giorno sì e l’altro pure?»
Eva aveva abbandonato la presa sulle corde dell’altalena, aveva colto una piccola pietra e gliel’aveva lanciata addosso.
«E come farai a capire chi sono, allora?» aveva urlato, una lacrima che le scendeva sulla guancia. «Se non ti lascio niente che ti fa ricordare che sono esistita, razza di ignorante!»
Cercando di scansare inutilmente quel colpo, Franz si era alzato ed era andato a piazzarsi di fronte a lei. «Senti, io ti amo, che te ne importa del resto?»
«Mi ami adesso. Ma domani? E dopodomani?»
«Uguale!»
«E nella prossima vita?» aveva chiesto lei, asciugandosi il viso rabbiosamente. «Se sarò brutta e grassa come Margit la pazza, tu non mi vorrai più!»
Franz si era addolcito. Le si era accovacciato di fronte accogliendo le mani nelle sue. Poi aveva sorriso.
«Sciocca ragazzetta. Io e te siamo come Buda e Pest: anche se un giorno siamo separati, lo troviamo il modo di unirci di nuovo»
Un singhiozzo aveva impedito a Eva di replicare.
«E se proprio ti sei fissata con questa storia, allora ti taglio i capelli e li tengo con me, così quando sarà, mi ricorderò.»
Eva aveva annuito, incapace di parlare.
«Ma come ti sono saltate nella mente queste stramberie?»
«Zia Nagynéni me l’ha detto» aveva ammesso. «Ha detto che le persone vivono tante volte e allora io ho pensato che se adesso ti conosco, non ti conoscerò tra tanti anni e tu non conoscerai me… e non voglio…»
Franz, intenerito da quella strana dichiarazione d’amore, si era sollevato e l’aveva stretta tra le braccia. Era stata la prima volta che lei aveva ammesso di ricambiarlo, anche se non l’aveva detto direttamente.
«Sarai ancora più bella di adesso» le aveva sussurrato lui all’orecchio. «Con i capelli lunghi, colore della resina degli alberi che crescono a Sarvar, e pure gli occhi avrai diversi, marroni come i kurtos che ti piacciono tanto.»
«E tu che ne sai?»
«Lo so e basta.»
«Tu non sai proprio niente. Ti stai inventando un sacco di scemenze solo per farmi stare buona.»
Franz l’aveva allontanata e poi le aveva preso il viso tra le mani. L’aveva baciata dolcemente e poi aveva ripreso a parlare.
«Sì, ti dico» aveva sorriso. «Se è vero quello che dici, pensa a quante avventure ancora possiamo avere… e magari, la prossima volta siamo ricchi sfondati e possiamo comprarci un cavallo!»
Eva era scoppiata a ridere tra le lacrime. «Mi fanno senso i cavalli» aveva risposto tirando su col naso. «Puzzano.»
«Allora ci compriamo una casa! Anzi no, che dico, un castello, come quello del re!»
Eva, rincuorata dalle sue parole, aveva ricambiato il suo sorriso sincero. «Prometti.»
«Che?»
«Prometti che mi vieni a cercare.»
«Non c’è bisogno che ti prometto niente perché io non ti lascio mai.»
Su quel letto tutto storto, Eva posò lo sguardo su Franz: dormiva russando piano. Era convinta che ci fosse qualcosa di romanticamente drammatico in un amore che finisce, una sorta di approvazione divina, crudele ma dolce, devota alla perfezione dell’attimo. Eppure se pensava che un giorno avrebbe perso Franz, le mancava il respiro. Forse loro due erano l’eccezione alla regola, quelle anime di cui tutti i libri parlavano, che erano state formate insieme per poi essere donate a due corpi diversi. Sapeva che era così. Doveva essere così. E sperava che il passare del tempo non avrebbe lasciato che si dimenticassero di quanto erano stati fortunati a essersi trovati.
Si piegò su Franz sussurrando in modo quasi impercettibile: «Ti vengo a cercare io, kitöltést, a costo di rivoltare l’universo come un calzino».
Gli diede un leggero bacio sulla tempia, poi si distese e si addormentò.
Deborah D’Addetta
Racconto primo classificato della sezione A (racconti inediti adulti) del Premio Letterario L’Avvelenata 2021.
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