Il racconto della domenica: Un concerto di Silvia Penso
C’era il sole a Victoria Park e l’erba sapeva d’estate. Toto continuava a prendere birre XXL in vassoi appositi da sei e Samuel ci presentava nuovi amici. C’eravamo tutti. Solo lei non c’era. Lei non sarebbe più venuta da nessuna parte. Invece c’era Cat Power. Era piccola sul palco e io strizzavo gli occhi nel caldo delle quattro del pomeriggio. Pensare che in altri giugno avevamo avuto così freddo a Londra, fuori dai locali e quella notte sotto il club The Arch, mentre aspettavamo l’autobus sbagliato dopo aver ballato ore nella tranquillizzante trasformazione di noi stessi nel gregge, nell’ondeggiare armonico della massa, nel trascolorare intermittente delle luci fluo tra le braccia alzate, a guardarci sorridere nella trasparenza dei bicchieri, del gin. Avevamo ammirato l’alba al di là dei tetti e controllato la fermata senza capire che saremmo arrivati in zona cinque invece che due. Avevamo fumato più Marlboro rosse del dovuto e la gola raschiava, ma ci piaceva così. Essere un po’ maledetti come i poeti del liceo, permettere ai sensi qualsiasi sperimentazione. Come avevamo fatto dentro le altezze immense della fabbrica abbandonata, i bassi a rimbombare nelle orecchie, lei, Emma, la indicavamo sardonici attraverso una cortina fumosa mentre trescava con l’organizzatore del rave, un minorchino rimastone che poi l’avevamo presa in giro per i secoli dei secoli. Girava tutto allora, nelle narici e nelle tasche, negli orli dei reggiseni e sotto la lingua. E dopo che il francobollo si era sciolto ci eravamo divertiti a far entrare le nostre mani scintillanti di luce dentro i mattoni rossi della fabbrica, diventati soffici, provvisti di altre dimensioni e cunicoli spazio-temporali. Dal soffitto umido dei nostri fiati, tramutati in condensa, colavano colori che al ritmo delle casse incontravano il linoleum del pavimento ed esplodevano morendo in tripudi arcobaleno di spesse gocce variopinte. Lori declamava «Odi Ermione» forse scambiando le colonne di cemento grigio, piantate nello spazio immenso della sala, per gli alberi di un bosco. Noi – io, lei, gli amici – ridevamo pensando all’illusione dei sensi. Ci baciavamo per gioco e ci amavamo per davvero, quei dieci che eravamo. Come si amano i fratelli, i membri di una società segreta, parti di fili invisibili che siamo soliti chiamare affinità.
Ora erano dieci anni in più, e in mezzo c’erano state l’Indonesia, la morte, l’amore, figli per nessuno di noi. Per fortuna mentre ci pensavo erano salite le Warpaint. Poi non è che me ne fregasse molto di quella storia dell’ereditarietà e del matrimonio e della memoria e di ciò che lasciamo. In fondo, tutto è molto grande come le birre di Toto, o molto piccolo come il valore di una vita per Dio. Dipende da dove lo si guarda, il grande e il piccolo, secondo quale logica separare ciò che conta da ciò che non ha importanza. Non è colpa dei recipienti, pieni o vuoti, dipende da noi, da come leggiamo i segnali. Quando il buio è sceso, i Radiohead sono saliti; ed era la volta degli accendini nella notte e degli alberi che mostravano sé stessi in figure straniate dalle ombre, in fruscii che partecipavano alle note. «I’m a creep» cantava lui. «Creep» che per noi significava «crepa» anche se avevamo scoperto che non era vero, perché non era così che c’eravamo sentite a volte, una crepa? Quando andavamo male in matematica, quando un ragazzo ci lasciava per un’altra, quando eravamo incomprese da tutti? Ma noi, io e lei, ci capivamo. E insieme eravamo indistruttibili. C’era solo una parola che contava: era avventura.
Il vento si era alzato mentre i The National cantavano «I need my girl». Era tutto perfetto, le luci tremolavano e come ai vecchi tempi Samuel rollava un carciofo, però anch’io avevo bisogno della mia ragazza. La mia migliore amica. Pensavo alle occasioni perse e cantavo. Emma non avrebbe più avuto il vento sulla faccia e gli accendini e le onde e le città europee che andavano, non viste ma vissute. Non dovevamo andare a vedere i ciclidi che si accoppiano nel lago Tanganica e come il Che girare il Sudamerica in moto? E di quella storia di andare sotto casa di De Gregori a cantargli le sue canzoni col ritmo che piaceva a noi per una settimana? Quante cose non avevamo spuntato dalla lista. L’aveva detto che voleva morire giovane come le dive, come il giovane Werther. Però, a vederla volteggiare, ridere, gustare l’entusiasmo per le cose, osservando la sua capacità di stupirsi del mondo e amarlo, forse troppo, con il dolore e la brutalità degli esseri, la morte non sembrava avvicinarsi, nemmeno quando aveva saltato a piedi giunti per il regalo di Natale che le aveva fatto Gippo, o per il weekend a Berlino che finalmente avevamo organizzato tutti insieme, anche se l’aereo era alle quattro di mattina. Non avevamo capito di essere anche noi interruttori che si spengono, impegnati com’eravamo con le esperienze, i nostri viaggi.
I piedi scalzi sull’erba, fissavo il palco di luci e le teste alonate di quelli che annuivano a tempo e mi stavano davanti, che condividevano con me una notte, un concerto, un parco. Il braccio di Steno sulle spalle, un grande, immenso punto interrogativo nella testa, un vuoto nella pancia. Era tutto troppo grande. E troppo piccolo nell’immensità della vita, nella moltitudine delle esistenze, dei misteri e delle domande. Forse era meglio viverla lì e in quel momento, senza scrivere romanzi nella testa mentre la musica andava. In fondo eravamo ancora insieme, noi e gli amici. Ancora Londra, ancora estate, ancora la finestra aperta sul quartiere di Angel e le sue chiese gotiche. C’era un posto letto in meno e una consapevolezza in più. Ma che importava ormai. Prima o poi l’avremmo raggiunta comunque, Emma. Così pensavo, tra tutta quella gente che cantava e creava controtempi di toni e stonature nell’armonia delle voci che si rincorrevano, disciplinate da quella baritonale del cantante. Un giorno, chissà, avrei raccontato tutto quanto. Intanto mi stavo godendo il concerto. Samuel conosceva gente nuova, io ballavo in circolo con gli altri sognando quello che non si può avere, Toto tornava con un’altra birra XXL.
Silvia Penso