Il racconto del mercoledì: L’astronauta di Stefano Lazzari

 Il racconto del mercoledì: L’astronauta di Stefano Lazzari

Illustrazione di Jacopo Silvestri

L’armadietto in alto a destra è libero. Mi tranquillizza poterci fare affidamento. Ho bisogno che almeno qualcosa sia costante, saldo. Pigio zaino e giacca dentro, chiudo, metto la chiave in tasca.

Mi lavo le mani; non l’ho mai fatto con tanta cura. Conto fino a venti, gratto con forza la pelle dei palmi, sfrego ogni superficie. Poi asciugo bene e disinfetto con l’alcool. Cambio la mascherina, suono il citofono.

La porta si apre, attraverso il corridoio e vado alla stanza numero sei. Tu stai riposando dentro la tua scatolina di plastica, al cui interno è accesa una luce blu. Indossi degli occhiali protettivi e un casco, a cui è agganciato un respiratore che ti aiuta quando i tuoi polmoni fanno scherzi. Una sonda porta il latte artificiale direttamente nello stomaco; un aghetto ha accesso alle tue vene; diversi sensori misurano saturazione dell’ossigeno e battito cardiaco. Sembri un alieno o un astronauta, invece sei mio figlio, nato prematuro.

I raggi blu, ad alta energia, ti aiutano a smaltire la bilirubina. Ha un nome divertente, ma se non la si elimina può essere neurotossica. Capire queste cose mi tranquillizza quando riesco ad astrarmi dalla situazione, ma per lo più mi terrorizza. Come saper leggere le misure dei tuoi sensori sullo schermo accanto all’incubatrice. Io, che ho sempre amato i numeri, ora ne ho paura. So che sono misure istantanee, che hanno senso solo mediate nel tempo, eppure a ogni bip fuori tono, quando un valore esce dall’intervallo prestabilito, mi si ferma il cuore.

Un’infermiera spegne la luce blu e ti toglie gli occhiali. Ora posso salutarti. Apro lo sportellino dell’incubatrice e ti sfioro il palmo. D’istinto chiudi il tuo minuscolo pugno, intrappolandomi il dito. So che lo fai inconsapevolmente, ma sorrido. Mi piace pensare che tu avverta che sono qui. Ti sussurro che per te ci sarò sempre, e che non ho mai pensato si potesse amare qualcuno così tanto, senza averci mai parlato, senza nemmeno un abbraccio.

Oggi sono stanco e non ho voglia di leggerti nulla. Il mio dito ancora nella tua mano, canto. Il medico arriva durante la mia esibizione; da quando ci sei tu, nulla mi imbarazza. Dice che ti devono inserire un catetere che arrivi direttamente al tuo cuore. Non possono tenere l’aghetto inserito; le tue vene sono fragili. Mi manda in sala d’attesa.

Controllo l’ora, cammino in tondo, cerco di leggere. Col passare dei minuti mi perdo, non so più di che parli il libro, rileggo la stessa pagina, le stesse righe. Ci stanno impiegando troppo. Voglio cantarti altre canzoni, leggerti libri, raccontarti storie. E tante altre cose.

Mi torturo per due ore, immaginando cose che la mia mente cerca di cancellare immediatamente; poi suono il citofono, chiedo di te. Devo pazientare. Altri dieci minuti.

Finalmente mi dicono che è andato tutto bene. Devi riposare, mi mandano a casa. Non ti ho potuto salutare, dirti che ci vediamo domani. Ma tu stai bene, oggi è andata bene. Spero che domani l’armadietto in alto a destra sia ancora libero.

Stefano Lazzari

Blam

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