Il racconto della domenica: Sottovoce di Chiara Cerri
Ti sarei venuta a prendere in aeroporto. Heathrow. Terminal 2. Arrivi. Per prima cosa avrei visto spuntare la tua chioma in mezzo a tutta la gente. Oh, la tua lunga chioma, lo sento ancora oggi l’odore selvaggio che emanano i tuoi capelli. Mi ricorda di quando andavamo in bici scalze, di come era semplice.
Nella metro avresti sigillato labbra e narici per non fare entrare l’aria contaminata. Appena uscita avresti fatto una corsa, facendoti largo tra la gente, a prendere boccate d’aria. Dicendomi che tu quell’aria bruciata di ferro e rame non la respiri, non la vuoi dentro di te, la nube marcia di questa città. Che io sono tutta matta a vivere qui. Nel tragitto verso casa, non avresti commentato quello che di solito la gente nota di questa città: la pulizia, la compostezza delle persone, le macchine che si fermano davanti alle strisce pedonali. Tutti eleganti, tutti di fretta. Non avresti neanche notato la quantità di lingue diverse che si sentono parlare. Io ti conosco. Ti saresti fermata a guardare le erbacce ai lati delle strade, il tarassaco, l’erba viperina, la cicoria; saresti stata attratta dagli intonaci pastello delle facciate, camminando raso al marciapiede, per sfiorare con le dita i mattoncini impolverati. A te interessavano solo gli anfratti di vita, per questo sei arrivata a me.
Una volta a casa avresti passato i minuti a ispezionare le crepe, cercando musi di topi affacciati ai buchi delle pareti. Poi saresti stata posseduta dallo spettro di mia madre, facendomi domande sull’orario in cui mangio e dormo, come ad assicurarti che nella mia vita ci fossero ancora dei ritmi sani. Ti avrei risposto seduta sul letto, davanti allo specchio, per avere più chiarezza espressiva. Quante volte ci siamo guardate allo specchio, io e te.
Avresti osservato le stampe che tappezzano i muri della mia stanza e avresti detto mi piace questa. È sempre la solita, anche a distanza di anni. Come se per te il futuro non contasse, ma ci fosse solo il tempo conosciuto, quello in cui ci siamo noi due. Comunque: è un’immagine in cui sorridi, a nove anni, sporca di fango. Ricordo bene quel giorno. La notte era scesa tanta pioggia e io avevo passato la mattina a saltellare nelle pozzanghere in mutande e calosce. Sei arrivata in quel momento. Tu e le tue domande. Tu e quel riempire lo spazio vuoto intorno a me. Ho iniziato a schizzarti di fango sbattendo il piede per terra. Quante risate. Poi sono andata a prendere la Fm 1 di mio padre per scattarti una foto.
Tutti ci vedevano la desolazione della provincia. Un quadrato di selciato e sentieri, niente di più; ma che ne sanno loro? Mi sale il nervoso quando la gente non capisce che ci sei tu in quella foto.
Al tuo arrivo qui avremmo passeggiato lungo i negozi luccicanti del centro, mi avresti sorriso dalle vetrine, facendomi l’occhiolino. Tentando di corrompermi a mollare la mia ambizione per tornare al paese a giocare con te. Al ritorno, ti avrei riaccompagnata in aeroporto abbracciandoti e infilandoti in tasca un biglietto con su scritto un promemoria su come arrivare al gate, so che se te lo avessi spiegato a voce ti saresti offesa. Noi due, che sapevamo orientarci sulle montagne anche a occhi chiusi.
Il giorno in cui sei sparita dalla mia vita sono rimasta in piedi di fronte all’entrata della metro. Mi sono bloccata con le persone che mi battevano contro, sono rimasta in piedi, dondolando come un filo d’erba. Alla fine ho dovuto mettermi una mano davanti alla bocca per smettere di parlarti. Non avevo idea che non saresti più stata capace di raggiungermi. Ti ho aspettata per giorni. Mi sono vestita per uscire, ma sono rimasta a casa. Ho abbassato le avvolgibili, tappato ogni buco da cui potesse entrare la luce. Mi sono messa a ballare. Ricordi quanto ballavamo insieme davanti allo specchio? Ho toccato le maniglie delle porte, una, due, tre, quattro volte. E tutte le volte necessarie. Mi sono baciata i polsi. Spento e acceso le luci. Ore interminabili allo specchio a parlare sottovoce. Le tue e le mie, le nostre espressioni del viso, fuse insieme. Non c’eri più.
Altri sono venuti a cercarmi, forse mi hanno sentita bussare, camminare, ansimare; loro non mi conoscono bene come te, ma riempiono alcuni orari vuoti. Ogni tanto provo a vivere questa città, guardandola un po’ con i tuoi occhi: i mattoncini, la cicoria, gli intonaci, il tarassaco; trovandola meno aliena.
Chiara Cerri