Il racconto del mercoledì: Entropia di Chiara Zucchellini
La sua amica non era in imbarazzo per lo stato della casa. Sul divano c’erano tutine, cubi di gomma, pannolini puliti, cianfrusaglie che aveva dovuto ammucchiare di lato per sedersi. La culla era per terra, staccata dal supporto con le ruote – degli affari che manco un fuoristrada – e le copertine di mussola, arruffate, le davano l’aria di una cuccia per cani. Non che siano poi molto diversi bimbi e cani, aveva pensato. Solo che ai bimbi, a un certo punto, devi insegnare a parlare. Il figlio della sua amica parlava? No, a tre mesi fanno solo gorgheggi. Aveva i denti? No, ma rosicchiava di tutto e sbavava come un bulldog – per l’appunto. E con la pappa, con il sonno: era bravo? Prendeva solo latte della mamma, notte e giorno, a ciclo continuo, ogni tre ore: a prova di cronometro.
Adesso era fuori con i nonni; il latte glielo avevano messo nel biberon. La sua amica se l’era tirato dalle tette con un alambicco che incombeva sul tavolino – sembrava una trombetta da stadio. Incredula, le aveva confessato che ogni tanto non riusciva a usarlo bene, e allora finiva per spremersi il latte a mano, proprio come si fa con le mucche. Certi giorni riusciva a farne una sacca piena solo così. Poi, lo congelava.
Lei aveva sorriso, trascinando con un dito immaginario l’informazione nella cartella delle cose orride insieme ai quindici punti nella fagiana. Un tempo nemmeno si immaginava che esistesse l’abisso vischioso di certi discorsi – una volta parlavano d’altro, e la sua amica aveva in dispensa sempre il fragolino; prendevano i bicchieri da liquore e si buttavano nei ricordi come per tenerli stretti. Il tempo, in un certo modo, si allontanava, ma loro erano sempre lì. Loro erano sempre loro.
Dio!, avrebbe ucciso per quel fragolino.
Invece, adesso perfino la casa aveva un odore diverso. La sua amica elencava turpitudini, non le offriva niente da bere, e se ne stava in quel delirio di salotto con la tuta e i capelli sudici come se fosse normale – lei, che una volta non usciva mai senza rossetto, che nei camerini ci faceva notte, anche solo per provarsi vestiti che non avrebbe comprato, solo per essere bella. Lei, che una volta sorrideva per davvero, ora stava lì, e si era dimenticata di ogni cosa, anche di sé stessa.
Quando l’appiccicume del salotto era diventato troppo languido, aveva detto che si era fatto tardi: peccato per il bimbo, l’avrebbe visto un’altra volta. Quindi si era alzata; prima di uscire aveva pensato di chiedere alla sua amica se avesse bisogno di aiuto per sistemare le tutine, i cubi, i pannolini. Poi, però, non lo aveva fatto.
Perché la sua amica se lo meritava, ecco.
Si meritava di avere l’anima deragliata, di mungersi come una mucca, di farsi ingoiare da quella sua entropia. Si era dimenticata chi era, quindi se lo meritava.
Fuori dal portone, camminando, si era toccata la pancia. Era ancora piatta: troppo presto per dirlo, anche solo per pensarlo. E lei, a ogni modo, era diversa. L’entropia non l’avrebbe mai ingoiata.
Chiara Zucchellini