Il racconto della domenica: Sono entrata nello specchio di Giusi D’Urso
Dopo anni di insignificanza sono entrata dentro il mio specchio.
Ma prima di questo gesto c’è la mia storia e guai a chi me la tocca.
Sono stata una bambina ubbidiente, piena di delizie. La prima delizia furono le fossette sulle guance rubiconde che tutta la parentela strizzava nella sua insaziabile brama di contatto fisico. Altre delizie: le mie cosce di bambina con l’appetito. Guarda che soddisfazione, che pieghe, che rotoli da morsi. Che si trattasse delle guance o delle cosce, i pizzicotti spacciati per coccole mi furono subito insopportabili, ma non avevo ancora le parole né il coraggio per dirlo. E anche ad averne, nessuno mi avrebbe ascoltata. Pare fosse un rituale consolidato, una specie di cerimoniale, pertanto buono, legittimo e giusto.
Sono stata una bimba prodigiosa, onnivora e vorace, la pappa spolverata senza un lamento, una protesta. La gioia della casa e degli abitanti tutti, contenti e soddisfatti dei piatti pieni di cibo buttato giù in un lampo. Il bis di pasta, il bis di patate, un boccone per mamma, un altro per papà, per la nonna e anche per la zia, se no si offende e non ti vuole bene. Merende al cioccolato, guarda come si lecca le dita, che passione per la cioccolata al latte con la sorpresa dentro. Il gelato per aver dormito, le patatine per non aver pianto, le caramella per non aver disturbato.
Poi, negli anni della scuola, l’alunna perfetta. Silenziosa e diligente. I compiti sempre a posto, le risposte sempre consone e misurate. La bambina è buona, è ammodo, le maestre l’adorano. Ha preso un bel voto, merita un premio, il più dolce che c’è.
Qualcuno a un tratto cominciò a preoccuparsi delle pieghe del collo, delle gambe che sfregano, dell’addome sporgente. Ci fu un momento preciso. Quello degli amici di papà che una sera a tavola fecero delle osservazioni, parlarono di me come di un’assente. La bambina ha appetito e si vede. Sorrisi sarcastici, silenzi imbarazzati.
I pizzicotti assunsero un significato diverso, lo avvertii dall’intensità e dal piglio canzonatorio che li accompagnava.
E allora niente più bis di pasta, niente più merende a base di cioccolata, non si può esagerare, lo vedi anche tu, sembri una bimba da scuola media. Mi guardavo allo specchio: osservavo la persistenza di ciò che era stato delizia fino ad allora e facevo i conti con l’inspiegabile scomparsa della tenerezza.
Quando arrivai alle medie sembravo una liceale, con le mie forme e le mie curve precoci. Avevo un brutto rapporto col mio sangue mensile, con i maschi e i loro pensieri morbosi per le cose intime delle donne. Il mio astuccio degli assorbenti svuotato sul pavimento, le scritte imbarazzanti sul mio banco. Cose che capitano a tutte le ragazze. Cose che a me capitavano ogni giorno. Iniziò allora la stagione dell’«ona». Tettona, culona, cosciona, fiancona. Accezione per indicare i miei distretti corporei, estesa quasi subito al territorio delle attitudini: puzzona, petona, mangiona, pigrona. Intorno a me si materializzò un mondo «one», l’unico in cui abitare.
Mi guardavo allo specchio del corridoio, fissato alla parete tra uno scaffale e una scarpiera. Il punto della casa più frequentato in assoluto. Mia madre vi si aggiustava le sbavature del rossetto, sorridendo a sé stessa per l’età portata bene. Mio padre vi si ravviava i capelli grigi, da quando qualcuno gli aveva detto che il brizzolo gli donava. Mia sorella, più piccola di me di due anni, vi si strizzava i primi brufoli facendo delle smorfie orribili a sé stessa.
Trascorsi così gli anni delle medie.
Ma è al liceo che successero le cose davvero interessanti.
Sono in terza liceo, l’era dell’«ona» ha ceduto il passo a quella dei commenti espliciti. Hai il culo più grosso di tutte, mi dice la tipa della terza C coi jeans attillati. Nessuno ti caca, dice il primo della classe, bello e inarrivabile, quando mi passa accanto e non mi vede.
A casa risuonano nuovi mantra: «smetti di mangiare», «basta, che gonfi», «i dolci guardali da lontano», «niente olio», «niente pasta», «mi fai preoccupare», «non ti posso guardare». Il resto è sempre uguale. Sbavature di rossetto, capelli grigi, brufoli strizzati.
Compro vestiti fuori taglia. Mi sento a mio agio nella sovrabbondanza, nelle maniche capienti, negli elastici allentati. Nei negozi d’abbigliamento, ignoro il reparto femminile con le sue taglie trentasei–normale, quarantasei–inguardabile, e mi dirigo direttamente in quello maschile. Mi copro, mi nascondo, mi proteggo. Che avete da guardare?
Poi un giorno mi accorgo che lo specchio si è ristretto, è diventato insufficiente e non posso sostituirlo, scollarlo dalla parete. Non posso neanche ignorarlo, ci passo davanti mille volte al giorno e questo transitare, specchiarsi e vedersi dimezzata mi fa impazzire. È dalla disperazione che germina la decisione di digiunare.
Smetto di mangiare e quasi quasi non ci crede nessuno. Dopo qualche settimana di disorientamento, i mantra cambiano segno: «perché non vuoi più la pasta?», «perché salti la merenda?», «ti piaceva la cioccolata», «che novità è questa di non fare colazione?», «se non mangi sto in pensiero», «non ti posso guardare così magra».
Un giorno. Una settimana. Un mese. Un anno. E divento un punto, un centro. Il centro dell’ansia di mia madre. Il centro dei dubbi di mio padre. Il centro dell’invidia di mia sorella.
A scuola ho un’amica con cui posso condividere argomenti: pratiche per liberare lo stomaco, numero di chilometri da fare ogni giorno, ore di insonnia per bruciare di più. Quanti fusilli nel piatto, quanti grammi di pane, quanti chicchi di riso. La nuova narrazione è più chiassosa della precedente ma ci sto dentro a mio agio. La fighetta culo-sodo mi saluta. Il più bravo della classe mi passa gli appunti. Nei negozi di vestiti rivaluto il reparto femminile e la taglia trentasei–finalmente–normale.
Adesso che ho capito come fare mi sento potente. Non m’importa se le mie fossette sono rughe, le pieghe del collo sono grinze, le gambe disegnano un arco a ogiva, le scapole sono ali sporgenti, le braccia un mucchio d’ossa in un sacco rattrappito. Non m’importa neanche se il mio sangue è sparito da mesi, se il corpo risparmia e trattiene ciò che può. Io sono più forte.
Lo specchio però è rimasto insufficiente. Continuo a vedermi abbondante. Troppa roba, qui, sull’addome; le cosce troppo grosse, i fianchi troppo larghi. Basta, mi urla mia madre, non vedi che stai scomparendo. Mio padre mi guarda senza parlare, più o meno come prima, ma con un’espressione triste e i capelli più radi sulle tempie. Mia sorella passa poco in corridoio, preferisce restare chiusa in camera a chattare.
Mi portano da un dottore, da sola non ce la posso fare. Il dottore mi spiega che il problema sta nell’immagine allo specchio. Mi spiega che ho una disfunzione della percezione corporea. Sono in un modo e mi vedo in un altro. È su quell’immagine che bisogna lavorare.
Torno a casa con questo pensiero nella testa. Passo davanti allo specchio e osservo me cicciona, me brutta, me troppa, me pigra, me mangiona, tettona, culona, fiancona. Sei rotta, le dico, sei sbagliata, sei tu la mia rovina. E piango e urlo e mi accascio sul pavimento. In casa non c’è nessuno, ma se ci fosse una folla intera di persone nessuno saprebbe consolare né me né l’altra intrappolata nello specchio. Allora mi tiro su e prendo le misure all’immagine colpevole, è su di lei quindi che mi devo concentrare, è lei che devo aggiustare. È quell’ammasso di grasso appeso alla parete, fra scaffale e scarpiera, a essere sbagliato. Mi faccio coraggio, un respiro profondo, con un balzo entro per intero nello specchio. E il mio sangue, rosso da fare sgomento, ricomincia a scorrere.
Giusi D’Urso
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Molto intenso nelle pieghe narrative che permettono di penetrare il mondo della protagonista. Uno stile sobrio e accattivante riesce a esprimere con efficacia gesti, stati d’animo e quant’altro sostenendo la spina dorsale del racconto.
Lucia