Il racconto della domenica: Il sugo di Marina Mongiovì

 Il racconto della domenica: Il sugo di Marina Mongiovì

Illustrazione di Fabio Boffelli

Sul fondo argenteo scoppietta la cipolla. La pentola alta, quella delle occasioni, troneggia sui fornelli. Carmela ha fritto le polpette e ha disposto tutti i tagli di carne sul tavolo. Annegheranno dentro la passata di pomodoro quando arriverà il loro momento. Non prima e non dopo: ogni cosa a suo tempo. In principio saranno i pezzi di carne: solidi, fibrosi, sanguinolenti. Poi toccherà allo stinco, ai tagli di carne con l’osso, alla cotenna di maiale, grassosa e rigida, che Carmela aveva lavato e privato di ogni residuo di peluria. Si sarebbero susseguiti filari di salsicce, puntine e infine le polpette. Per ore, in quel ribollire, si sarebbe compiuto il miracolo del sugo della festa.

Niente di strano, se non fosse un mercoledì di fine agosto con una coltre di scirocco che grava sul respiro. Il sugo si addice alle domeniche invernali, quando si conzano le lunghe tavolate familiari. Pure il carnezziere aveva trovato inusuale quell’estiva richiesta di cotenna, ma Carmela voleva un signor maiale ed era stata accontentata subito con il carico di carni del martedì. Con un certo compiacimento, Carmela avvicina le narici alla bottiglia di vino scuro. Sfuma la carne che ora sfrigola emanando un sentore di sangue e alcool.

Antonio fa il ragioniere per una ditta di calcestruzzi. Ci lavora da decenni, sempre gli stessi orari, sempre gli stessi numeri; ancora qualche mese e andrà in pensione. Con Carmela si erano conosciuti che erano due ragazzini; la fuitina agitò gli animi delle famiglie e soprattutto l’umore, già oltremodo burbero, del padre di Carmela. Un anno dopo gli iracondi parenti brindarono alle nozze e il suocero, dopo aver imposto il diploma di ragioneria al serale, sistemò Antonio come contabile nella ditta di don Pasquale. Seguirono quasi quarant’anni di matrimonio e quattro figlie che Carmela aveva sfornato ogni tre anni e mezzo.

Una colata di pomodoro adesso copre i tranci di carne. Ottima annata: pomodori belli panciuti erano entrati nella cucina di Carmela già i primi di agosto e aveva imbottigliato le prime dieci cassette. Il rito del pomodoro non aveva risparmiato nessuna estate della sua vita; da bambina con la madre e la nonna, poi con le figlie e, adesso che sono maritate, tutta sola, conserva l’estate dentro ai barattoli di vetro da mezzo litro.

Carmela ha sgrassato gli ossi e adesso li aggiunge al sugo. Un animale smembrato, con quel che resta delle articolazioni e delle cartilagini, si immerge in quella lava incandescente. Carmela mescola con forza, chiude il pentolone con un coperchio e aspetta. Aspetta che quel grasso si sciolga lentamente, che le fibre rilascino tutti i liquidi vitali che, mescolati al pomodoro, avranno nuova vita. E pensa, Carmela. Pensa e stringe i pugni mentre sente scoppiettare i nervetti dello stinco da dentro il pentolone.

Dentro quella casa anonima, simile a milioni di altre case, aveva vissuto il dramma che altre milioni di donne conoscevano: l’essere cornuta. Incinta e cornuta. Accadde alla terza gravidanza e iniziò tutto con un presentimento femminile. Per il resto ci pensò Cettina, la più pettegola delle comari di Carmela. C’erano le prove, c’erano i testimoni, ma Carmela decise di non fare niente. Era al nono mese e si tappò il naso, gli occhi, le orecchie. Tutto pur di non sentire e vedere. Antonio dormiva e Carmela annacava la bambina.

Quel marito, così perfettamente ordinario, correva dietro al culo di Assunta Viglianisi, che tutti chiamavano “a Marchisa”, per via del suo fare aristocratico. E a Marchisa non aveva disdegnato, anzi si era concessa con ampia facilità fino a che divenne consuetudine: una volta a settimana per trent’anni. Carmela s’era messa un velo davanti agli occhi e impassibile passava davanti la casa della Marchisa. Qualche volta aveva incontrato i suoi occhi cerulei al mercato o alla processione della santa patrona ma niente, il viso di Carmela non si tradiva, non mostrava alcun turbamento. Era immersa in quella bolla in cui tutti sanno ma non dicono, al massimo ammiccano e sussurrano quando girano l’angolo.

È il momento della cotenna: pelle spessa, di animale marchiato a fuoco e scuoiato. Due centimetri di grasso bianco che diventerà liquido e la pelle porosa, adesso ostile, si scioglierà in bocca con la sua consistenza morbida e callosa insieme. Carmela mescola e riaffiorano ossi e carne, la cotenna resta sospesa. Ci vuole tempo e calore. Il pomodoro non è più lo stesso, non ha più una consistenza vegetale; si è sporcato, si è arricchito di energia animale. Adesso ribolle con più vigore, arde rabbioso. E di raggia Carmela ne aveva ingoiata tanta, ma gli album di foto si erano riempiti: matrimoni, battesimi, comunioni, compleanni, nozze d’argento. Nei giorni di festa, per le vie del centro, aveva un braccio su cui appoggiarsi. Aveva un pranzo e una cena da preparare, ogni santo giorno, e andava bene così.

La Marchisa viveva in un appartamento di un palazzo storico, le comari più accanite sostenevano che le mancava solo la luce fuori dal portone, come facevano le donnacce del quartiere San Camillo. Si vantava di avere origini nobili ma lavorò tutta la vita come segretaria del notaio Lo Giudice. Pare avesse avuto molti uomini, però nessuno se la volle pigliare, troppo emancipata per i gusti dei compaesani. Se gli amatissimi gatti della Marchisa potessero parlare, farebbero la felicità dei pettegoli, e invece c’erano solo voci che, passando di casa in casa, diventarono incrollabili verità.

Ci siamo, il grasso si è mescolato al pomodoro. La carne comincia a staccarsi dagli ossi. Carmela afferra le salsicce, ne strappa un pezzo e lo divora avidamente. Sente la carne cruda sotto i denti, il pizzicore del pepe nero. È ottima, un signor maiale, e la cala giù, insieme alle puntine. Mescola con grande forza, ha gli occhi inondati di orgoglio e compiacimento. Fuori si è levato il vento e i rintocchi segnano mezzogiorno. Tra i fornelli e lo scirocco l’aria si fa infernale e Carmela socchiude le persiane.

Antonio quando dorme fa una specie di rantolo. Oramai non lo percepisce più, ma anni addietro, soprattutto dopo la scoperta del tradimento, Carmela si svegliava e non riusciva a riprendere sonno. Quel rantolo che, a tratti si trasformava in un sottile fischio notturno, la torturava. Era lì, sul letto nuziale, appanzato e tranquillo, e magari qualche ora prima era stato tra le cosce della Marchisa. I primi tempi, quando la gelosia le divorava le viscere, aveva pensato di spegnere il rantolo con un cuscino premuto, con tutta la sua forza, sulla testa di Antonio. Ma poi si girava dall’altra parte fino a quando il rantolo veniva inghiottito da notti tutte uguali.

Per ultime finiscono dentro le polpette. Già fritte nell’olio, insaporiscono il sugo nell’ultima mezz’ora di fuoco. Carmela ha messo su la pentola con l’acqua dove cuocerà la pasta. Ha apparecchiato con cura: la tovaglia a fiori, le posate in argento, il servizio di porcellana e i calici delle feste di compleanno. Si leva di dosso il sudore e si pettina i capelli. Che sorpresa quando Antonio troverà il sugo di maiale. Di mercoledì, ad agosto.

Mentre Carmela sposta, dal pentolone in un grande vassoio, i pezzi di carne bruni e sfilacciati, la cotenna liscia e morbida, gli ossi e la salsiccia macchiati da un sugo dal rosso profondo e denso, in quello stesso momento, i resti mortali della Marchisa vengono riposti dentro un tabbuto di mogano e i becchini saldano la lastra di zinco che li separa dal mondo dei vivi. Un ictus, una settimana di agonia e poi l’epilogo.

La casa si è impregnata di un odore dolciastro, quello delle domeniche di festa. Mentre l’acqua per i maccheroni bolle insistentemente, Carmela se ne sta seduta a tavola, in una penombra umida e asfissiante. Attende che Antonio torni a casa. Finalmente.

Marina Mongiovì

Blam

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