Il racconto della domenica: Il numero 12 di Davide Cerreja Fus
Tutta la panchina salta in piedi alla partenza del contropiede. Ma lui capisce tutto quello che c’è da capire rimanendo seduto nel suo angolino. In rapida successione sente l’impatto della mano del portiere contro il parastinchi avversario, il clac di un osso che va fuori posto, un urlo acuto di dolore e il fischio dell’arbitro. Dopodiché si alza dalla panchina tra gli strilli dei tifosi sugli spalti, attraversa la disperazione dei suoi compagni che bestemmiano a mezza bocca e, quando il mister si gira urlando «Testa, scaldati» ha già finito il primo allungo.
«Dio Cristo, domani devo imbiancare!» ringhia il portiere infortunato – numero 1 anche della Buson decorazioni – mentre il medico sociale cerca di riportargli in sede la spalla sinistra lussata e l’arbitro lo espelle punendolo come ultimo uomo. Ne scaturisce una mezza rissa, domata a cartellini gialli e finita con il 9 avversario che, accusato di non aver fatto nulla per tirare indietro il piede, si butta a terra mani in faccia. «Si alzi o butto fuori anche lei» taglia corto l’arbitro.
Poi, nel silenzio, i cartelli della sostituzione sventolano il verdetto più scontato, ché a portiere espulso c’è poco da fare gli artisti: fuori l’architetto Vezzù, che scalcia la panchina riportando negli spogliatoi l’estroso numero 10 sulle spalle curve e frustrate; dentro il pragmatico numero 12 di Testa, che si infila i guanti accompagnato dalla voce del Paride, anziano tifoso con pizzetto caprino e colbacco in capo: «Eeeeh, quello lì l’è nen bun» sentenzia in un dialetto rassegnato riassumendo la sfiducia di tutti. Ma Testa non ci fa caso, il suo obiettivo ha appena messo il pallone sul dischetto del rigore e si chiama Simone Meraviglia. Occhi azzurri, barba incolta e ciuffo piastrato, vive da anni la sua mediocre carriera da dilettante come se fosse una star, distribuendo equamente la sua presenza nei locali più alla moda della provincia e il suo corpo a donne di età variabile. Non è scarso, intendiamoci, ma non è mai andato oltre la Prima Categoria. Dalla sua ha velocità, fisico e resistenza, ma i piedi sono buoni per l’interprovinciale. Un onesto numero 7, un’ala che pretende il numero 10 per mere questioni di carisma. Ora ha 33 anni, un “incidente di percorso” di 8 che la madre non gli lascia vedere, e 13 modeste mensilità da meccanico che sperpera in ferie d’agosto a Ibiza. Testa ci ha giocato insieme nella Juniores, quando tra il diciannovenne Meraviglia e i provini del reality show Campioni si era messo di mezzo solo il costo eccessivo del treno. E, durante quella militanza comune, Meraviglia non era mai riuscito a segnare a Testa un rigore in allenamento. Motivo per cui ora, passandogli di fianco, il numero 12 gli sussurra senza quasi guardarlo negli occhi: «Lo sai che te lo paro, no?». Il trucco è semplice: Meraviglia è mancino e piazza tutti i rigori a sinistra; se incrocia esagera con l’angolazione e la butta fuori. Al massimo, prende il palo. Se lo provochi apertamente, la sua mente semplice reagisce con l’impulso di umiliarti, tirando il rigore forte e centrale o, se proprio si incazza, facendoti un morbido pallonetto che a stento tocca la rete. Per cui ora Testa si piazza sulla linea di porta saltellando, aspetta il fischio dell’arbitro, e finge di buttarsi alla sua sinistra mentre Meraviglia prende la rincorsa, in realtà restando perfettamente in equilibrio sulle gambe. Il pallone gli arriva docile in grembo. Fa l’occhiolino a un furioso Meraviglia, prima di palleggiare tre volte e rinviare il pallone lungo mentre l’arbitro fischia la fine del primo tempo.
Nella vita c’è chi nasce istintivo come un 9, reattivo come un 7 o cattivo come un 5. Matteo Testa era nato 12, portiere di riserva. La sua esistenza era stata l’attesa di un momento buono che non arrivava mai: prima l’istituto tecnico, così impari un mestiere e vai a lavorare, ché tanto i soldi per l’università non li abbiamo; poi 15 anni da postino, di cui 7 a sentirsi dire che ancora non ti passiamo responsabile perché diamo precedenza ai colleghi laureati, per valorizzare le loro skills, ma tranquillo che il tuo turno arriva; e ancora la convivenza forzata con i suoi, ché è inutile buttare i soldi in un affitto: tanto quando muore la nonna – 88 anni di marmo – hai l’alloggio a disposizione. In 33 anni di scelte ponderate e finalizzate al quieto vivere, di notti non finite all’alba nella via, di amori timidi e silenziosi, aveva passato più tempo a pensare alla sua vita che a viverla. Suo padre, che si sentiva in colpa, gli diceva sempre di ricordare Giulio Nuciari, secondo portiere della Sampdoria degli anni Novanta, che con 333 panchine era il giocatore che, più di tutti, non aveva giocato in serie A. Eppure aveva vinto due scudetti e una Coppa delle Coppe.
E infatti Testa non molla, il mister lo sa: non sarà esplosivo come il numero 1 Buson, ma in questo spareggio per andare ai playoff, con due risultati utili su tre e uno zero a zero da difendere, averlo in porta è una garanzia. Non ha nemmeno bisogno di motivarlo, meglio lasciarlo in campo nell’intervallo a completare il riscaldamento.
«Ma tu sei il mio postino» dice una voce femminile mentre Testa si regge alla rete per tirare il quadricipite. Alza gli occhi e vede il sorriso disarmante a cui tante volte ha consegnato una raccomandata balbettando. Lei fa un cenno con la mano: «Ti ricordi?».
Colombo Cristina, via Garella 12, abbonata a Internazionale. I genitori, Colombo Ettore e Berardi Evelina, stanno in via Dante 4, abbonati a Famiglia Cristiana.
«Vagamente…», risponde Testa, cambiando gamba e fissando una formica bianca di calce sulla linea di fondo campo.
«Sei stato bravo» riparte lei in contropiede.
Testa respinge con una smorfia.
«Per il rigore» la ributta in mezzo lei.
Testa blocca in presa alta e rinvia storto e insicuro: «Gioca il tuo ragazzo?».
«Nooo» spazza via lei goffamente. «Lavoro con Abu.»
Di Victor Abubakar, detto Abu, numero 7 avversario, Testa aveva letto sul giornale: nigeriano, in Italia da metà dei suoi 18 anni e regolarmente impiegato alla cooperativa agricola, oggi è alla sua ultima presenza. Da domani il centro di accoglienza che lo ospita chiuderà e lui finirà chissà dove. Il mister, negli spogliatoi, aveva così riassunto la faccenda: «Rimandiamo a casa il negro e tutti i suoi compagni».
«È uno tosto» si disimpegna Testa.
«Lo dovrà essere per forza» entra in tackle Cristina.
Le squadre rientrano.
«In bocca al lupo, magari ci rivediamo» lascia filtrare lei.
Testa smanaccia in corner.
Il secondo tempo è un assedio in cui i calci volano alla cieca. Palla, caviglia, parastinchi: sembra una gara di tiro al piattello. Il mister, se potesse, metterebbe dentro anche il terzo portiere. Testa non fa passare nemmeno uno spiffero. Il pubblico ruggisce facendo merenda: panem – salamen – et circenses.
Al minuto ottantasette Abubakar entra in area e Lometti, terzino sinistro di anni 21 che comincia ad accusare i 5 gin lemon della sera precedente, si lancia in una scivolata tanto prudente quanto le 2 scopate senza preservativo seguite ai gin lemon. L’impatto lo sentono anche dall’ossario del cimitero adiacente. La sentenza del fischietto pure. Il mister non viene espulso per inutili proteste, ma per la bestemmia che echeggia nella valle.
Quando il momento arriva ti senti come Willy il Coyote che riesce a catturare finalmente Beep Beep, pensa Testa: aspetti per anni, e poi? Pari quest’altro rigore, ti giochi i playoff da titolare e dimostri a tutti chi sei? O butti via tutto, per gli occhi tristi di un ragazzino che comunque i playoff non li potrà giocare e il sorriso di una ragazza a cui al massimo potrai infilare la posta nella buca?
Meraviglia è di nuovo sul dischetto, il Paride urla: «Adesso vediamo, se t’è bun!».
L’arbitro fischia.
Davide Cerreja Fus
1 Comment
Un gran racconto, ironia e profondità miscelati con sapienza. Ed eleganza. Ben fatto