Il nostro meglio di Alessio Forgione: quello che siamo stati e che non saremo mai più. Recensione
È un conto alla rovescia, l’indice dell’ultimo libro di Alessio Forgione, da poco uscito per La nave di Teseo e intitolato Il nostro meglio. I capitoli si susseguono uno dopo l’altro seguendo il ritmo della numerazione: Dieci, Nove, Otto, Sette, fino ad arrivare a Zero. Poi la conta ricomincia da capo, proprio nel momento in cui il romanzo si chiude, con un paragrafo che si intitola Uno. Sembra di trovarsi di fronte a una premonizione, alla vista di una bomba a orologeria che si avvicina pericolosamente allo scoppio. E la lettura di questo romanzo, di conseguenza, procede come in un tempo sospeso, nell’attesa che l’esplosione arrivi e porti via tutto.
Il nostro meglio di Alessio Forgione: la trama del libro
Amoresano vive a Bagnoli, in un quartiere della periferia di Napoli. Frequenta svogliatamente l’università e alterna lunghe passeggiate a pomeriggi trascorsi nella casa d’infanzia, insieme ai nonni. È tutto perfettamente ordinario e statico quando arriva la notizia che cambia ogni cosa, come per le tragedie più conosciute: una giornata di giugno, i libri dell’esame da preparare sul tavolo, i bambini che urlano fuori dalla finestra. Poi una telefonata, lapidaria, il cui contenuto inizia a suonare come una condanna: la nonna ha un tumore, le rimangono sette mesi di vita. Amoresano rimane come impassibile, in un limbo di pensieri inutili: “La vita si ferma e riparte. Voglio chiedere a mia madre se sono sicuri, se dicono davvero, se davvero ci sta accadendo questa cosa. Se questa cosa davvero sta accadendo a noi”. È come il vuoto, ma un vuoto sinistro a cui sembra non esserci riparo: il piede scivola pericolosamente sul bordo della voragine e la caduta è solo questione di secondi.
“Non posso pensare che i giorni, così come uno li conosce, diventeranno un’altra cosa e che quelli di prima non esisteranno più”.
Narrare per ricostruire il passato, per mettere in ordine il presente
È da qui che parte la narrazione, che è ricostruzione e riordino insieme: del passato, del presente, di quello che sarà, di quello che invece non sarà più; dei giorni persi e dei giorni da recuperare; di un rapporto che è stato indicibile nella sua intimità e che a un certo punto si dovrà, per forza di cose, bloccare al tempo passato. Ma come si fa a prendere le misure con la morte che avanza? Come si guarda negli occhi qualcuno sapendo che ogni giorno è una lotta contro il tempo, che bisogna custodire ogni gesto, ogni sguardo, ogni passeggiata insieme, ogni parola e virgola, sospiro, silenzio, grido, carezza? Come ci si abitua a dire “eravamo” dopo vent’anni passati a dire “siamo”?
Il dolore: un linguaggio cifrato
La realtà del dolore è talmente vasta e sconosciuta da rimanere, il più delle volte, cifrata. È un linguaggio che siamo incapaci di maneggiare, perché ci sovrasta e ci ingloba, talvolta nella forma di una nebbia densa, talvolta nel suono di un silenzio sordo o di un grido esasperato. Attraversarla è come percorrere un limbo. Un’attesa, una sospensione, talmente dilatata da diventare impalpabile e confusa. E si cammina a fatica, indovinando i passi con lentezza, ignorando il disorientamento, perché camminare è una necessità – perché la malattia e il dolore non possono mai davvero interrompere la vita degli altri, di quelli che rimangono.
Un racconto catartico
Chiunque abbia vissuto un dolore lo sa: conosce in ogni dettaglio questa sensazione che rifugge le parole, questa anestesia che a volte erompe in pianti e singhiozzi, questo senso di colpa per tutti i giorni che vivremo senza che le persone che abbiamo amato possano parteciparvi. È come un tradimento, una violenza. E proprio per questo motivo si rimane increduli di fronte alle pagine de Il nostro meglio, che offrono – al contrario – un resoconto intimo, delicato e perfettamente realistico di quel viaggio soffocante che è l’accettazione e la processazione di un lutto. Alessio Forgione non ha lesinato niente, in questo romanzo, neppure la descrizione di quei momenti in cui è l’egoismo a prendere il sopravvento sull’amore. E il risultato è talmente commovente che sembra quasi di aver partecipato a un rito catartico in cui il dolore degli altri diventa anche il tuo, e il tuo è quello degli altri, in una mescolanza collettiva che ha la forza di una liberazione.
Un romanzo sulla perdita, sull’amore e sulla morte
Ci sarebbero molte cose da dire su questo romanzo, che è un romanzo di formazione, un racconto d’amore, una dichiarazione d’appartenenza verso Napoli. Ma i libri sono come stanze: prendono forma e consistenza a seconda di chi li ha abitati, di chi li ha vissuti – fuor di metafora, di chi li ha letti, sottolineati, stropicciati, bagnati, annusati, riletti. E quindi Il nostro meglio, almeno in questa recensione, è un libro sulla perdita. Sull’amore, anche, e non necessariamente quello romantico, ma su quello che non ha bisogno di contorni o etichette. Quello tra nonna e nipote, per esempio, o tra nonno e nipote, che è forse l’amore che più sfugge alle parole, quando cerchiamo di circoscriverlo – perché una nonna non è una madre ma è come se lo fosse; non è una figlia, ma può diventarlo, quando sei costretto a cambiarle il pannolone o a sorreggerla mentre va in bagno. E questo amore è fatto di tutte le cose che ci si è scambiati negli anni: gli occhiolini, i sorrisi, i litigi, gli insegnamenti, i segreti, gli abbracci, le strette di mano, i viaggi in treno e in macchina, le corse all’ospedale, gli appuntamenti mancati – una lista che ognuno di noi, come Amoresano, può compilare.
Ma Il nostro meglio è anche un libro sulla morte, sulla nostra incapacità di accettarla. Sulle traverse che percorriamo per evitare di fronteggiarla. E sul momento, tragico, in cui si auto-impone in tutta la sua evidenza, in un rigurgito di sangue che è il segno della fine, dello strappo. Dell’esplosione che è avvenuta, perché il tempo è ormai scaduto.
Cosa resta quando tutto si interrompe
E allora cosa resta? Cosa resta, poi, quando tutto si interrompe, quando l’elettrocardiogramma è piatto, quando il respiro improvvisamente non c’è più e sembra che il nulla ci stia inghiottendo? Ancora: “cosa aspettiamo quando non sappiamo più cosa desiderare? Cosa speriamo se niente più ci separa dalla fine? Cosa altro rimane quando non si sa più parlare, quando le parole, da sole, non possono coprire le dimensioni di quel che proviamo, se non piangere?”.
Amoresano risponde così: “Niente. Non ci resta niente, questa è la verità”.
Ed è la verità. Perché il dolore ci coglie impreparati, anche se lo abbiamo aspettato per sette mesi.
Ma poi le pagine si susseguono, vuote, e alla fine ce n’è una che inizia così: Uno. È la conta che inizia da capo. La vita che, dopo essersi fermata, riparte.
Non vi diremo cosa c’è scritto, ma vi assicuriamo che sarà bellissimo scoprirlo.
a cura di Rebecca Molea
1 Comment
…come fosse la tua dedica al mio amatissimo papà e all’adorato nonno