Il racconto della domenica: Scivolando di Giuseppe Fiore

 Il racconto della domenica: Scivolando di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Angela Barbiera

Beviamo una birra. Seguimi, dice. Mi prende una mano. La seguo. Apre la porta del bagno per disabili. Entra. Entro. Mi tiene la mano. Tira il mio braccio verso il suo corpo. Come potessi sparire in un attimo. Non vado via. Tira fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca. È stropicciato. Semivuoto. Winston blu. Bianco con le scritte. Le ho rollate prima di uscire, dice. Sorrido. Tira fuori la rais. Il filtro bianco, lungo. La guardo. Strappa via la punta con la bocca. Si siede sul cesso. Puzzerà, dico. Ci sgameranno. La puzza attraverserà le pareti. Passerà da sotto la porta. Chiameranno la polizia. Non ti preoccupare, dice. Ha un pantaloncino corto che copre un quinto della sua coscia. Sale in piedi sul cesso. C’è una finestra molto in alto. Difficile da raggiungere senza una scala. Credo inutile per un disabile. Con una mano si tiene alla parete. Sale sulla sbarra posizionata al fianco del cesso. Messa lì come aiuto. In piedi sulla sbarra tocca il davanzale. Si aggrappa. Per un attimo poggia i piedi sulla parete. Cammina in verticale. Poi è su. Seduta sul davanzale. Apre la finestra. Mette i piedi fuori. Sali, dice. C’è spazio. Seguo la traiettoria che ha lasciato. Quasi una scia che devo solo riempire. Sono seduto di fianco a lei. Sul davanzale. Ci passiamo la rais. E il fumo sembra addomesticato. Va verso la finestra. Non crea cappa. Non segue il vento. Esce. Rimaniamo in silenzio. Le gambe si sfiorano. Le mani solo nel passaggio. È un bel posto dove stare. Un bel momento da passare. Vieni scendiamo, dice. Da dove? chiedo. Mi sento minuscolo. Non prendo mai iniziativa. Giù, dice. Cosa c’è fuori? sono così preso dai nostri respiri che non ho proprio guardato. Mi sporgo. Non c’è nulla. Solo nero. Sembra di essere al trentesimo piano. Ma sono certo che questo bar non abbia nemmeno un secondo piano. Non c’è nulla, dico. Anche lei si sporge. Giusto, sorride. Sarà anche meglio, dice. Mi prende il braccio. Uno. Due. Tre. Scivola giù. Dal davanzale verso il buio. Mi tiene stretto il braccio. La seguo.

Sei sempre così criptico, dice. Sempre mezze verità, senza un filo logico. Fisso la parete: bianca. Inizia a presentare qualche minuscola crepa. Oh, mi ascolti? chiede. Annuisco. La guardo. Da quanto tempo stiamo insieme? il letto è mio. C’è un poster di Twin Peaks. Non di quelli nuovi. Con il cartoncino duro. È un foglio normale, solo più grande. E si sta strappando sui bordi. Sospiro. Continua a fissarmi. Che ho fatto? mi alzo. Vado alla finestra. È tutto buio. Mi tocco nelle tasche. Ci sono le sigarette. Le sento. Non c’è il telefono. Lancio uno sguardo al resto del letto. Non c’è. Tanto non devo parlare con nessuno. Apro la finestra. Non c’è vento. Tiro fuori il pacchetto. C’è tua madre di là, dice. La porta è chiusa. Non passa luce da sotto. L’ho fatto mille volte, dico. Lei sospira. Si alza. Dammene una, dice. È l’ultima, dico. Ed è vero. Il pacchetto è vuoto. Non hai da fumare qui? chiede. Forse sì, dico. Mi avvicino alla scrivania. Ci sono dei cassetti. Apro il terzo. Rovisto. C’è uno scatolo di un vecchio telefono con i tasti. Lo apro. C’è un cartone nel mezzo. Lo tolgo. Sotto c’è un pallino di fumo. È poco, dico. Possiamo farci un cortino, dico. Annuisce. Faccio io, dice. Le passo la sigaretta, l’accendino, il fumo. Non rollo sempre io. Che ore sono? è buio. Allora che ne pensi? chiede. Sta lavorando piegata alla scrivania. Sembra affondare. Sento la pietrina dell’accendino che sfrega. Riguardo cosa? chiedo. Si ferma. Si gira. Mi guarda. Ancora? chiede. Devo spiegartelo ancora? dovrei ascoltare di più. Guardo di nuovo il letto. Mi stendo. Con le gambe che escono fuori dal perimetro del materasso. Guardo il soffitto. Forse con un salto arriverei a toccarlo. Ma avrebbe senso? si alza. Ho finito, dice. Mi alzo. Finalmente. Ci avviciniamo alla finestra. Tieni la mano fuori, dico. Non far entrare nulla. Annuisce. Sorride. È carina, credo. Accende. Sputa tutto fuori. Non c’è vento. Non c’è aria. Iniziamo a passarcela. Nel silenzio. Non so cosa dirle. Possono, a un certo punto, finire le cose da dirsi? dopo un primo periodo pieno di discorsi, cosa rimane? ci svuotiamo anche noi. Allora rimango in silenzio. Tiro solo quando è il mio turno. Non c’è niente giù, dice lei. Mi affaccio. È tutto scuro, dico. Stiamo ancora insieme? chiede. Perché non dovremmo? rispondo. Siamo diventati così diversi, dice. E non ho idea di cosa significhi. Intanto sento i passi di mia madre dal corridoio. Cazzo, dico. Mi chiama. Non ci sono altre vie di fuga. Prendo la rais. Afferro il suo braccio. Mi butto giù. Lei mi segue.

Stanotte si vedono un sacco di stelle, dice. Il cielo non sembra staccarsi dalla terra. Mi sembra tutto ribaltato. Siamo stesi su una sottiletta. Lei ha le braccia intorno al mio bacino. Le mie, lunghe, seguono la forma del mio corpo. Sento i suoi capelli sotto al naso. Da piccola la sfida era trovare più stelle cadenti, dice. E vincevi? chiedo. Non mi interessa molto. Secondo me sì, mio padre le inventava, dice. Non posso esserne sicura, ma avrei potuto barare anche io, dice. Sento il mare. Poco lontano. Siamo in spiaggia. Forse è San Lorenzo. Non c’è nessuno. Solo noi. Il cielo sembra una di quelle metropoli nei film americani. Luci. Luci. Luci. Ovunque. Quando moriamo saliamo, dice. Saliamo tipo vapore. E arriviamo da qualche parte sopra di noi, dice. Non credo, dico. E in cosa credi tu? chiede. Anzi aspetta, mi ferma. Prima di parlare allunga la mano verso la mia borsa, dice. Passamela. La sabbia potrebbe essere lava. Così cerco di rimanere sulla sottiletta e afferrare la borsa senza toccare il suolo. Ma che fai? chiede. Sorride. Mi piace. In qualche modo mi manca. Come le figurine. Le avevi tutte tranne una. E quella ti mancava davvero. Le passo la borsa. Ho una rais già chiusa, dice. Mi fa l’occhiolino. Sorrido. Finisce quasi con la testa nella borsa. Ne esce vittoriosa. Hai l’accendino? chiede. Mi tocco le tasche. Ho un pacchetto. E un clipper. Non il telefono. Non so dove sia. Le passo il clipper. Si ristende. Accende. Un caminetto d’inverno. Dicevi? chiede. Sulla morte. Credo sia più una questione di realtà. Come frequenze diverse a cui la vita attinge, dico. Cosa? chiede. Si alza. Tocca la sabbia. Non succede nulla. Si stiracchia la schiena. Le passo la rais. Noi ora viviamo questa determinata realtà, poi moriamo e passiamo a uno stadio diverso della nostra esistenza, ma rimaniamo sempre qui, solo che su un’altra frequenza più o meno, dico. Andiamo a riva? chiede. Annuisco. Mi alzo. La seguo. Cerca la mia mano. Cedo. L’acqua è calda. Cioè secondo te sono tutti qui, ora? chiede. In che senso? rispondo. Che ne so, i miei antenati? sono qui, in questo posto, in questo istante e mi guardano, mi spiano? chiede. In qualche modo, sorrido. Sarebbe assurdo. Pensare che ci disperiamo per un morto e, in realtà, venire a sapere che è lì, solo a un passo da noi. Non so, sembra più interessante salire, dice. Già, dico. Non mi entusiasma morire. Rimaniamo in silenzio. Lei continua a guardare in alto. Vedo delle luci avvicinarsi. Delle torce. Cazzo. La pula, dico. Lei si gira. Vede le torce. Mia afferra il braccio. Corri, dice. Entriamo con i piedi in acqua. Poi le caviglie. Ginocchia. Bacino. Andiamo sotto, dice. Andiamo sotto. Scivoliamo giù. Mi tiene ancora la mano.

Ha una borsa di tela. Buste del supermercato che fanno moda. Chissà cosa ci tiene. Hai l’accendino? chiede. Forse qualche agendina. Qualche frase. Qualche mezza storia incompleta. Forse poesie. O pensieri semplici. Profondi. Superficiali. Liste della spesa. Magari bianca. Vuota. Una matrioska. Mi tocco le tasche del pantaloncino. Ho il tabacco. Semivuoto. Ho un bic. Piccolo. Rosso. Lo prendo. Lo lascio sul muretto. Lei lo prende. Fai una L, dice. Quando sono con lei mi annoio. Quando non c’è, vorrei ci fosse. Solo per annoiarmi. Prendo le cartine. Due corte. Una in verticale. Una in orizzontale. Lecco sulla colla in verticale. Poi le attacco. Sfrego sul dorso della mano. Mi piacciono quelle persone che fanno disegni. Ritratti silenziosi. Chi, nel silenzio, traccia linee che unite creano volti. Magari il mio. Magari perché è bello. O ha qualche particolarità. Perché piace a occhi poco abituati. Non riesco a sprofondare in lei. Nel suo carattere. Nelle sue abitudini. Hai qualcosa per fare un filtro? chiede. Annuisco. Non mi va nemmeno di parlare. Di farle sentire la mia voce. Seduti su questo muretto di merda. Cosa porta nella borsa? perché non apro e basta. Senza tutte queste paranoie. Perché non trovo un po’ di coraggio e le dico solo che ho paura. Paura di non avere idea di chi si nasconda in quella borsa di tela. Prendo il portafoglio dalla tasca. Apro. Cerco tra le tessere. C’è un biglietto del pullman. Non è timbrato. Lo spezzo lo stesso. Tanto non lo prendo mai il pullman. Inizio ad arrotolare. Un silenzio imbarazzante, privo di ogni significato. Ci vediamo solo per fumare? cosa può portare in una borsa? portafoglio. Tabacco. Magari assorbenti. Fazzoletti. Poi? a cosa serve tutta quella tela solo per tre oggetti? potrei accartocciare questo filtro. Incazzarmi. Senza preavviso. Cazzo. Stiamo insieme. Che hai? chiede. Scuoto la testa le passo il filtro. Ha già messo la mista nella cartina. Infila il filtro all’estremità. Inizia a rollare. Mi guarda. Io no. Guardo le gambe. Che scendono dal muretto. Sotto di noi c’è solo il buio. Ci sentiamo. Ci diamo appuntamento. Ci vediamo. Fumiamo. Parliamo. Scopiamo. E poi non ho la minima idea di cosa contenga la sua borsa. Degli oggetti che porta con sé giorno e notte. Non ho idea di cosa sia il suo privato. Se le piace scrivere, dovrei poter leggere i suoi testi. Dovrei poter sapere quello che pensa. Quello che vorrebbe urlare. Oh, allora? chiede. La rais ancora in fase embrionale. Nulla, sussurro. Sento delle voci. Dalle scale scende qualcuno. Appaiono due sue amiche. La guardo. Lei saluta. Mi sorride. Fa tre cose contemporaneamente. La rais ora è chiusa. Le sue amiche si avvicinano. Accende. Il fumo sale. Mi giro di scatto. Le prendo il braccio. Guardo oltre il muretto. Mi lascio cadere. Lei segue.

Il tavolo è marroncino. Ci sono delle macchie. Piccole. Lei è di fronte a me. Siamo seduti fuori. C’è solo un tavolo. Intorno, il vuoto. Una nebbia nera nasconde tutto. Lei ha il suo vassoio davanti. Mangia un panino semplice. Senza cetriolini e salse. Solo pane e carne. Le patatine. La coca cola media. Io non ho un vassoio. Perché non ho un vassoio? non ho fame? tira piccoli morsi. Rimango fermo. Anche se potrei rubare una patatina. Lei sembra attraversarmi con lo sguardo. Sembra fissare la nebbia nera. Solo quella. Sul tavolo c’è una piccola borsa. Un pacchetto di sigarette. Un bic rosso. Un biglietto del pullman a metà. È bella. Per me almeno. Non credo di aver mai visto un essere così bello. Ha uno smalto rosso. Lo stesso rosso del bic. Lo stesso rosso delle sue labbra. Non mi vede. Mi sento debole. Finisce il panino. Tira un sorso dalla coca. Prende due patatine e le butta giù in un solo morso. Prende il pacchetto. Lo apre. Tira fuori una rais già rollata. Non qui, vorrei dirle. Siamo in un McDonald’s, potrebbero esserci bambini, padri poliziotti. Lei accende e il fumo non sale. Va in orizzontale. Verso di me. Dritto. Mi attraversa. Mi guardo le gambe. Ci sono. Il mio corpo è tutto qui. Stessi colori, forme di sempre. Mi tasto le tasche. Anche io ho un pacchetto. Semivuoto. Apro. C’è una sola sigaretta. Ho un clipper. Accendo. Il fumo si unisce al fumo della sua rais. Preferirei fumare anche io quella. Preferirei passarcela come sempre. Ma sono invisibile. Lei non mi vede. Non mi parla. Non mi sente. Sono qui. Sono anche lì. E lì. E ancora lì. Fumiamo nel silenzio. Ci guardiamo. Forse sa che sono qui. Dentro di sé, sente di non essere sola. Tutti ne siamo in grado. In una stanza. Strada. Parco. Ovunque. Sentiamo la presenza anche senza rumore. Sentiamo l’energia della vita. Siamo così vicini. Solo uno di fronte all’altra. Su un tavolino minuscolo. Eppure non possiamo toccarci. Parlare. Comunicare. Continua a fumare. La rais brucia veloce. Sparisce. La mia sigaretta brucia, anche se non tiro. Brucia da sola. La guardo. Cerco di mettere tutta la forza mentale che possiedo. Sono qui, mi vedi? cos’è successo? dove siamo? non serve. Siamo così diversi. Già. Una minima rotazione impercettibile e siamo diversi. La rais finisce. Spegne il filtro sul tavolino. Lo lascia cadere a terra. Mangia le ultime patatine. Nel silenzio assoluto. Un silenzio falso. Un silenzio che non esiste. Lo senti? senti che ci sono? che ti accompagno ancora? è tutto nero intorno a noi perché è la realtà che ci siamo costruiti. La nostra realtà che perde vitalità. Energia. Si spegne. Finisce tutto. Un timer. Scatta. Finisce. Stang… si alza. Si ferma sul perimetro. Un passo ancora e sarà nella nebbia. Mette il pacchetto in borsa. Il Bic. Il biglietto del pullman strappato. Ogni secondo che passa sembra diventare più bella. Almeno per me. Almeno in questo punto dello spazio. In questo battito di tempo. Rimango seduto. Vorrei piangere. Ma lacrime, qui, non esistono. È tutta una costruzione per non ammettere di voler solo vivere. È tutta una perdita di tempo in un gioco che scade. Mette la borsa sulla spalla. Fa un piccolo saltello verso la nebbia. Sparisce nell’oscurità. Rimango seduto. In un McDonald’s privo di coordinate.

Giuseppe Fiore

 

Blam

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