Il racconto della domenica: L’incontro di Carlo Maria Vadim
Non ricordo neanche più cosa fossi allora. Ero adulto, certo, ma forse mi portavo dentro troppi stupidi sogni del ragazzo che ero stato sino a poco tempo prima. Non so. Tutto avvenne alle fine di un’estate che già faceva sentire le prime frescure. Stavo con Silvia in un monolocale del centro. Lei aveva un lavoretto da un tipografo, io studiavo senza convinzione. Ero disorientato, vedevo davanti a me la vita come una strada tortuosa che dovevo comunque imboccare. Non che avessi paura di affrontarla, è che con Silvia ero diventato pigro e m’ero messo ad aspettare chissà che.
Una notte lei disse che dovevo andarmene, che dovevamo lasciarci, che non c’erano più ragioni per stare insieme. Io la supplicai di provare ancora, e mentre lo dicevo la abbracciavo sul letto; lei, invece, mi metteva le mani sui capelli e me li scompigliava con gesti affettuosi, come fa una mamma col proprio figlio. Poi Silvia prese sonno così, con la faccia sul mio petto, e io rimasi a guardare la finestra da dove entrava la tenue luce del lampione sotto la strada. Tutta la notte il tempo mi veniva incontro e invadeva il mio animo. Sentivo un ronzio nella testa e non sapevo cosa fare, perché quando Silvia diceva una cosa non c’era modo di farle cambiare idea, perciò con l’arrivo del mattino avrei dovuto far la valigia e andarmene. Allora i dieci mesi che ero stato con lei mi erano sembrati racchiusi in un giorno, come se avessi vissuto intensamente tutto in ventiquattro ore. Verso l’alba avevo pensato di alzarmi e andare via, ma c’era un’altra domanda che volevo farle prima. Lei dormiva e io rimasi a guardarle le guance invase dai capelli, la bocca un po’ socchiusa che se avvicinavo la mano sentivo il suo alito leggero e caldo. Nel momento del suo risveglio, quando aprì gli occhi, ebbi la sensazione che il tempo si stesse fermando. Lei sorrise, si mise a sedere sul letto e abbracciò il cuscino. Riprendemmo a parlare. Io subito le chiesi: «Se esco da qui cosa farò e dove andrò?». Lei, con espressione beata, mi disse: «Enrico, non essere sciocco. Puoi andare dove vuoi. Sentiti libero, non è bello sentirsi liberi? Conoscerai altre persone, altre ragazze… Io e te ci siamo detti tutto, continuare sarebbe inutile». Mi girai nel letto, le diedi le spalle e rimasi così, in silenzio, lasciando che le lacrime scivolassero sul cuscino. Sentivo che il tempo riprendeva a correre, e oltre la finestra potevo vedere le foglie di un albero mosse dal vento. A un certo punto mi alzai, il sole sorgeva, e di sotto c’era lo spazzino indaffarato attorno alle siepi. Silvia scese dal letto e s’infilò nel bagno. Misi il caffè sul fuoco e poi raccolsi la mia roba che poggiavo sul piccolo divano. Tirai fuori dall’armadio un borsone e, mentre ci ficcavo tutto dentro, Silvia uscì dal bagno di corsa a spegnere la caffettiera che gorgogliava. Poggiò le tazzine sul tavolo e ci versò il caffè; rimase a sorbirlo in piedi avvolta nell’accappatoio, io invece preferii sedermi; tenevo gli occhi bassi perché sentivo che era l’ultimo caffè con lei. Silvia disse qualcosa riguardo a un appuntamento a mezza mattina per un altro lavoro. Poi si mise a bordo letto con la limetta per ritoccarsi le unghie. Io raccolsi dal bagno le mie cose e le ficcai nel borsone. Fuori il sole saliva e le ombre della notte sfumavano. Nel viale ora c’era qualche passante e il ragazzo del bar che metteva i tavolini fuori. Non potevo più aspettare, qualunque parola sarebbe stata inutile. Presi il borsone e me ne andai. Dietro i vetri Silvia, col sole in faccia, continuava a limare le sue unghie. In fondo al viale si scorgeva la stazione ferroviaria. Mi diressi da quella parte ma non presi nessun treno.
Per tutta la mattina rimasi nell’atrio della stazione seduto sulla lunga panca addossata alla parete. La testa era vuota e ciò che facevo era di guardare l’andirivieni di chi partiva e di chi arrivava. Poi, sul tardi, mi passò davanti Anna, un’amica di Silvia che lavorava dallo stesso tipografo. Mi vide, si fermò e mi chiese se dovevo partire. Le dissi: «Non lo so», e a mia volta le chiesi: «E tu stai partendo?», e lei: «Non lo so neanch’io… con Francesco ci siamo appena lasciati… e tu, come va con Silvia?». Le dissi che ero nella sua stessa situazione. Sedette accanto a me e restammo così, in silenzio, entrambi storditi. Dopo un po’ mi chiese se qui in città avevo un posto dove stare. Le dissi che no, che non sapevo dove andare né cosa fare, e chiesi a lei se aveva un posto. Mi rispose che l’unica cosa che aveva erano seicento euro, gli ultimi, perché anche quel lavoretto dal tipografo era finito. Poi aggiunse che se avevo qualche soldo anch’io potevamo affittare un monolocale in periferia e tirare avanti qualche mese sino a quando avrebbe trovato un altro lavoretto. Io di euro ne avevo anche meno di lei (solo trecento e rotti, ma per mangiare andavo alla mensa universitaria). Lei conosceva una donna che verso lo Stura aveva da affittare una stanza per trecento euro al mese e che perciò, per almeno due mesi, avremmo avuto da dormire. Fuori dalla stazione salimmo sul 94 e arrivammo sino a via Balestreri dove c’era la casa. Una vecchia costruzione del dopoguerra, una palazzina popolare senza balconi, senza ascensore e senza riscaldamento. La stanza era al terzo piano: c’erano due letti, divisi da un tavolo e da un vecchio tappeto persiano. Il bagno era piccolo piccolo, aveva la doccia e in un angolo la lavatrice. Anna chiese alla donna se aveva un paravento da disporre tra i due letti. Quella ci guardò e si mise a ridere. Poi rispose: «Siamo nel duemila, non vi pare?». Quindi, intuendo il nostro imbarazzo e temendo che rinunciassimo, ci disse che poteva farci uno sconto sull’affitto e lasciarcela a duecentocinquanta. Quando con Anna restammo soli nella stanza le dissi: «Per andare a letto posso aspettare in bagno che ti infili sotto le coperte, se la cosa non ti imbarazza». Ma lei mi disse che anche questa soluzione le sembrava ridicola e che con un po’ di attenzione potevamo comportarci normalmente e aggiunse: «Enrico, mi sei simpatico ma per te non provo nessuna attrazione fisica». Anch’io le dissi che sì, lei mi piaceva come amica ma niente di più. E conclusi: «Nella mia testa c’è Silvia e nessun’altra. Capisci?».
In quella stanza dovevamo starci due o tre mesi e finimmo per viverci quattro anni. Io dal giorno dopo, e non so perché, ripresi a frequentare la mia facoltà di Farmacia e tre anni dopo presi la laurea. In tutto quel tempo riuscii a fare qualche soldo con delle lezioni di matematica a ragazzini del palazzo dove eravamo andati ad abitare, mentre per mangiare andavo alla mensa universitaria. Anna un paio di settimane dopo trovò lavoro presso una grande tipografia dall’altra parte della città, e praticamente ci vedevamo la sera tardi prima di andare a dormire. Dopo gli studi, trovai un part time presso una farmacia in corso Vittorio Emanuele II. Poi quando Anna rimase incinta (era una femmina e io volevo chiamarla Rosa come mia nonna, ma Anna fu irremovibile e volle chiamarla Greta, come la Garbo che le piaceva tanto) dovemmo lasciare la stanza e affittare un appartamento più grande dalle parti della sua tipografia, in zona Lingotto.
Sono passati sedici anni da allora e adesso di figli ne abbiamo tre (dopo Greta, che ora fa il liceo, sono nati Luca e Andrea, che frequentano le medie). Da sette anni abitiamo sopra la mia piccola farmacia in zona Cenisia. Anna si occupa della contabilità e del magazzino medicinali, io sto al banco. L’attività va bene e siamo sereni. E forse felici.
Quella mattina di fine estate che me ne andai verso la stazione senza sapere cosa fare vedevo la mia vita come una strada tortuosa, e invece le cose si sono messe diversamente. Forse, se non avessi incontrato Anna avrei preso un treno per andare non so dove. E invece è andata così.
Silvia da quella sera non l’ho più incontrata, né Anna ha più visto Francesco.
La vita è proprio strana: certe volte si piega in un modo e altre volte in un altro.
Carlo Maria Vadim