Il racconto del mercoledì: La luce delle scale di Vanni Santin

 Il racconto del mercoledì: La luce delle scale di Vanni Santin

Illustrazione di Verónica Salazar

Sei seduto a gambe larghe sul divano, una birra nella mano sinistra e la destra che ravana nelle mutande; guardi la tv senza prestare troppa attenzione. Sul pavimento del corridoio vedi proiettarsi la luce della tromba delle scale, passa dalla fessura sotto la porta e illumina un angolo di casa. Non riesci a smettere di guardarla. Passi dalla televisione alla luce più e più volte, ma quella non si spegne. Non dovrebbe avere un timer?

Forse la stanno accendendo gli altri condòmini, solo che ormai è passata un’ora ed è ancora accesa. Ma non è solo questo; c’è un silenzio diverso, come se ci fosse neve tutt’attorno; senza rendertene conto ti ritrovi a pochi passi dall’ingresso. La luce ora illumina i tuoi piedi nudi sul laminato freddo. Niente suoni, voci, rumori: anche la tv si è zittita e per un attimo hai l’istinto di andare a vedere perché.

Ti avvicini alla porta: la luce filtra dallo spioncino e ti arriva dritta all’occhio destro, ma tu non ti sposti. Ti pieghi in avanti avvicinandoti senza quasi staccare i piedi da terra: intravedi una sagoma attraverso il foro. Provi a deglutire, la gola è sabbia.

È una figura imprecisa, quella che vedi: la lente dello spioncino la fa apparire con la testa enorme e il corpo piccolissimo. Non capisci se sia uomo o donna, non ne intuisci statura o proporzioni. Scarpe grigie, jeans strappati, un parka verde dalle cui maniche escono dita sporche. Il cappuccio a coprire la testa, al posto del viso un’ombra.

Sta guardando verso il basso, come a studiare lo zerbino. Hai la sensazione che una faccia non ce l’abbia nemmeno. Sotto il cappuccio, il nero siderale della cecità, il nulla, ciò che non può essere visto.

Il respiro ti si fa via via più pesante, come se l’aria fosse acqua; sudi e tremi, bruci e hai la pelle d’oca.

«Chi sei?» urli. «Che vuoi?»

Vedi la cosa alzare la testa poco alla volta, è così lenta che pensi le ci vorranno secoli per sollevarla del tutto. Quando infine ci riesce, sembra passare attraverso la lente, entrare in casa tua, nella tua pupilla, e ti accorgi che sotto il cappuccio davvero non c’è nessuno: il vuoto, il buio.

All’improvviso la luce delle scale si spegne, cancellando quell’immagine mostruosa e assurda. Rimani immobile, cerchi di restare calmo, non ci riesci: devi aprire. Non ha alcun senso ma tu sai che devi aprire. Giri la chiave e a ogni mandata ti ripeti “fermati”; a ogni clangore dello scrocco pensi “che cazzo fai?”.

Quando apri, la luce si riaccende, ma davanti alla porta non c’è nulla, non c’è nessuno. Solo fango fresco sullo zerbino: impronte di scarpe. Nel petto, l’orrore di quel vuoto e il sollievo di aver immaginato tutto. Fai un passo indietro, richiudi la porta e dai quattro mandate. Ti volti e la cosa è lì, davanti a te.

a cura di Vanni Santin

Blam

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