Il racconto della domenica: Usate le mie iniziali di Lorenzo Gafforini

 Il racconto della domenica: Usate le mie iniziali di Lorenzo Gafforini

Illustrazione di Gianni Somigli

Carissima Rivista Blam,

ho visto che pubblicate racconti inediti sia corti che lunghi. Io non avevo intenzione di mandarvi un racconto lungo, ma a forza di scrivere è successo così. Ho guardato su Google e ho capito come contare le battute. Il mio è decisamente un racconto lungo. Anche se non è proprio un racconto, ecco. Si tratta più di una specie di confessione tardiva. Ma spero tanto possiate accettarlo. In caso vi dico io cosa scrivere, perché non mi sento molto di pubblicare col mio nome. È terapeutico scrivere (almeno così mi dicono); è solo che quando uno scrive per sé e basta non va bene. Bisogna condividerle, queste cose, dirle agli altri. E comunque non voglio compassione. Voglio solo parlare e vi ho scoperto per caso. Spero di aver fatto la scelta giusta. Ma procediamo con ordine.

Mio padre accumulava libri. Era un’ossessione. Finito il lavoro tornava a casa con lui almeno un libro. Papà lavorava in acciaieria. Si fermava da chissà lui e li prendeva. Di solito spendeva anche solo qualche lira. Non era un fatto di soldi. Non beveva caffè né fumava sigarette. Non giocava d’azzardo e neppure beveva. Aveva solo questa mania. Mamma non ci badava nemmeno più. Di tanto in tanto le portava anche dei romanzi rosa oppure dei gialli, che le piacevano. A lei andava bene così. Avevamo la casa stracolma di libri. Per anni li ho visti per terra, e alcune colonne raggiungevano quasi il soffitto. Molta gente che vedeva casa si stupiva e faceva i complimenti. Finimmo anche una decina di volte su alcune riviste specializzate in letteratura e una mia fotografia in soggiorno circondata da migliaia di volumi ebbe anche un discreto successo. Divenne virale fra gli appassionati, almeno così si può dire. Vi lascio immaginare i disagi che questi libri portassero. Papà non voleva disfarsene e solo dopo diversi anni si convinse a portarli in cantina, in solaio, in garage. Poco prima di morire aveva in totale tre garage di discrete dimensioni pieni zeppi di libri. Inutile dire che dopo il funerale mi presi una settimana di vacanza e passai per ore e ore a controllare migliaia e migliaia di volumi. La gran parte era ciarpame. Molti non valevano assolutamente nulla e mi decisi a buttarli in discarica. Alla fine ho tenuto un centinaio di volumi e mamma altrettanto. Lei ha deciso per i suoi romanzi rosa e gialli, mentre io sono andata a sentimento. Ho preso quello che mi sembrava potesse avere un vago valore culturale. Oltre ai classici, mi fidavo delle copertine e dei titoli. Non l’ho detto, ma papà non è che leggesse poi tanto. Su cinquanta libri che prendeva ne leggeva due, al massimo tre. Aveva una certa ritrosia verso i libri che superassero le trecento pagine. Quelli li aveva, sì, ma non li leggeva. Erano lì a prendere polvere. Ricordo che un giorno tornò a casa con una copia sgualcita della Divina Commedia, sentenziando: «Non esiste casa che si rispetti che non abbia una copia della Divina Commedia!». Quel libro non l’ha mai letto ed è stato almeno un decennio sul suo comodino, per poi finire in un garage e infine essere buttato. Penso gli piacesse darsi un’aria da intellettuale. Era un uomo intelligente, papà. Eppure non faceva ragionamenti molto complessi e quando seduto in poltrona leggeva un passaggio che gli piaceva si limitava a sorridere fra sé e sé. Un paio di volte gli ho chiesto addirittura di leggerlo e spiegarmelo, ma le sue parole erano confuse. Comunque papà era un uomo buono. Conosceva decine di rigattieri. Non andava mai nelle librerie. Prendeva solo libri usati. Come ho detto, per quel poco che leggeva, leggeva di tutto. Ogni tanto si impegnava anche con la poesia, però non riusciva ad apprezzarla totalmente. Fra quei libri ho tenuto anche i Canti onirici di un certo Berryman. Non l’avevo mai sentito, ed è normale. Conosco solo i nomi di alcuni autori, ma anch’io non leggo chissà poi quanto. Quando è morto papà ho realizzato che casa mia era vuota e i libri potevano anche fare un po’ di arredamento. Di quel libro mi aveva colpito la copertina: un uomo barbuto, pensieroso, dallo sguardo appannato con una sigaretta fra le mani. Non so se si tratti dell’autore o di qualche fotografia artistica. Sembra un santone. Ho saltato la presentazione senza pensarci troppo e ho cominciato a leggere quelle sue poesie così strane. Non ho capito granché. C’è il testo a fronte, però d’inglese ne so fino a un certo punto. Leggevo solo le pagine sulla destra. Su venti parole ne capivo una e anche quando ne capivo di più mi sfuggiva il senso generale. Ho fatto leggere quei versi a qualche amico e la pensano esattamente come me. Per anni quel volume è finito nel dimenticatoio e l’ho messo insieme agli altri in una libreria. Ci passavo davanti e non avevo mai l’impulso di leggere. Mi limitavo ad ammirarli di tanto in tanto e la gente mi faceva i complimenti per la mia collezione. Nulla di eccezionale ma, abituati a vedere case senza libri, la mia faceva un certo effetto. Forse cominciavo a capire papà: il suo sguardo compiaciuto, le sue letture improvvisate, le sue comprensioni a metà, eppure era felice. Non ostentava la cultura, gli piaceva il solo fatto che la gente pensasse l’avesse.

All’età di sedici anni sono stata stuprata. Ora che ne ho quaranta lo ammetto con una certa sicurezza. Riesco a scriverlo solo adesso, ci ho provato decine e decine di volte. In questo esatto momento ho un brivido lungo la schiena. Non riesco ancora a parlarne, e la parola “stupro” mi procura ancora un ribrezzo tale che nemmeno quello riesco a descrivere a parole. Non ho la pretesa, adesso, di raccontare tutto quello che è successo. Anche se volessi, non ricorderei molto. La mia violenza ora è solo una serie di fotogrammi confusi. Ho cominciato ad analizzare la cosa quando avevo ormai trent’anni, per i fatti miei. Mamma e papà non l’hanno mai saputo e forse è stato meglio così. Quando mi hanno fatto quella fotografia, nel soggiorno in mezzo ai libri, erano passate solo due settimane. Me ne stavo lì per i fatti miei, quando papà se ne arriva con un fotografo e comincia a scattare. È stata come una seconda violenza, questa volta nell’intimità di casa. Papà è euforico e io sono lì, in mezzo a tutti quei libri, con un’aria talmente malinconica che sembro uscita da una di quelle fotografie in bianco e nero dove sono tutti seri e tristi. Lui non poteva di certo saperlo. Io d’altronde non sapevo nemmeno cosa fosse uno stupro. È successo e ho provato solo un immenso dolore e una grande vergogna. Non mi sono chiesta altro, bastava il mio malessere. Perché condividerlo con gli altri? Quei ragazzi li ho visti ancora in giro, ma si tenevano alla larga. Forse avevano paura che parlassi. Non ho mai parlato. O meglio, l’ho fatto quindici anni dopo, praticamente, ma non ho fatto i loro nomi. Per quello che ne so, uno è sposato con due bambini e gli altri due convivono da diversi anni. Hanno delle vite normali, come la mia. Tuttavia, quando ho avuto trent’anni non ce l’ho fatta più a reggere il peso. Per anni, ho pianto all’improvviso. Era imprevedibile, piangevo e basta. È capitato spesso anche al lavoro e così andavo in bagno per una decina di minuti. I colleghi lo sapevano e non dicevano nulla. La prima volta che ne ho parlato con un esperto mi ha chiesto come mi sentivo. In un primo momento ho detto che ero indifferente, a tutto. Se però mi chiedono cosa ricordo, la risposta non è semplice. Prima dicevo fotogrammi. Invece a pensarci meglio è come quando ti risvegli da un sonno piuttosto agitato e confondi il sogno con la realtà. Per esempio, durante il sogno ti fai male a un gomito e quando ti svegli, però, ti sei fatto davvero male, perché a forza di girarti e rigirarti sei andata a sbattere. Non sono brava con le parole, ma è pressappoco la stessa cosa. Nei film dicono che si ricordano tutto: le loro mani, gli sguardi, le risate e tutto il resto. Io ricordo qualcosa, a sprazzi, ma adesso è solo una dolorosa sensazione. Dicono che non sono mai riuscita a istaurare una relazione stabile a causa di questo trauma. Forse hanno ragione. Adesso piango di meno. Non mi manca avere un compagno, eppure sento la mancanza di qualcuno. A un certo punto ho pensato di essere lesbica. Non lo sono. Adesso mamma comincia ad avere una certa età, ma è abbastanza autonoma. Non la devo seguire spesso, eppure una parte di me (forse sono cattiva?) spero si ammali. Potrei prendermene cura e potrebbe trasferirsi da me. Però mamma non è mica un cane che serve a farmi compagnia. Cerco di uscire spesso, ma mi piace guardare la televisione. Non ho nessuno spasimante. A quarant’anni sento di stare affrontando una crisi. Quello che non ho avuto per anni, sta arrivando tutto adesso. E se non m’avessero stuprata? Sarei magari riuscita ad andare all’università e a laurearmi? Non credo, ma sicuramente sarei stata più felice. Anche solo apprezzare di più me stessa. Il mio corpo non m’appartiene. Vivo con la perenne sensazione di galleggiare come un palloncino, non sento la terra sotto i piedi, mi manca concretezza. Ma torniamo alla prima parte di questo racconto/confessione, ché altrimenti non si capisce molto. Prima parlavo delle poesie di Berryman. Almeno un mese fa, tornata a casa mi sono messa per una decina di minuti buoni ad ammirare la mia libreria e ho posato gli occhi su quel libro dal dorso bianco bianco. Saranno passati sì e no dieci anni da quando l’avevo aperto. L’avevo un po’ scarabocchiato senza un senso preciso e a pagina diciassette ci avevo lasciato a essiccare una margherita. La poesia si chiama Canto della ragazza torturata. A un certo punto il poeta scrive: “Li sento stirarmi la giovinezza e menarmi la sferza”. Ecco, quando vieni stuprata a sedici anni è come se ti stirassero la giovinezza. È come quelle torture in cui legano mani e piedi a delle funi attaccati a dei cavalli e questi tirano in direzioni opposte. È sorprendente come la mente umana sia capace di tali atrocità, ma anche di capire come una persona si sente. Tuttavia quello che mi stupisce di questa poesia è il finale. Che a quanto ho capito la ragazza torturata per non pensare al suo male si isola dal mondo e dai suoi carnefici e pensa ad altro. Pensa a quando è stata felice. Io, in quel momento, credo di aver pensato solo al dolore, ma il suo è come un meccanismo di autodifesa o almeno credo. Affronta il terrore. “Restai sveglia per minuti a udire la mia gioia. Non ricordo più cosa vogliono. Restai sveglia per minuti a udire la mia gioia”. Forse l’ho interpretata male io, ma è quello che mi ha comunicato. Se mai deciderete di pubblicare questa mia testimonianza vorrei che mi contattasse uno studioso di queste poesie. Vi do io il mio consenso. Mi piacerebbe capire se ho interpretato bene, ma anche se così non fosse non importa. A me questa poesia ha aiutato, in un certo modo, più di mille parole. E anche se papà non sapeva niente di tutto questo è come se lo sapesse e mi ha fatto dono di questo libro. Forse non è così, ma mi piace pensarlo. Spero di avere contato le battute in maniera esatta. Se vi piace ma è troppo lungo tagliate pure. Come pseudonimo non saprei. Usate le mie iniziali.

Cordiali saluti.

Lorenzo Gafforini

 

Blam

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