Un cazzo ebreo di Katharina Volckmer: cronaca di un desiderio di trasformazione. Recensione
In quanti modi diversi si può venire a patti con la memoria storica? La protagonista di Un cazzo ebreo – libro d’esordio della scrittrice tedesca Katharina Volckmer, edito da La Nave di Teseo – ne sceglie uno personalissimo e dissacrante, che ha molto a che fare con il corpo. L’autrice dà vita a un flusso di coscienza incontenibile e seducente che parla di vergogna, identità, ossessioni, e lo fa con un’ironia feroce, con la forza nichilista di un desiderio di trasformazione in grado di prendersi una piccola rivincita sulla Storia.
Un Cazzo ebreo di Katharina Volckmer: la trama del libro
La protagonista, di cui non conosciamo il nome, è sdraiata su un lettino in una clinica privata londinese, in attesa che il dottor Seligman, abile chirurgo ebreo, porti a termine un intervento volto a dare una nuova forma al suo corpo. Di lei, inizialmente, sappiamo solo che è nata e cresciuta in Germania, si è trasferita a Londra e, di recente, ha ereditato una cospicua somma di denaro. Le sue riflessioni disarticolate ci portano avanti e indietro nel tempo aiutandoci a ricostruire la genesi del suo rapporto con la sessualità e la relazione con gli altri personaggi. Sotto forma di confessione intima, il cui destinatario è il silenzioso Dottor Seligman, il racconto mette gradualmente a fuoco l’insoddisfazione di una madre esigente, l’inconsistenza del padre, l’amore ludico e turbolento per un artista chiamato K, il fantasma di un fratello che non ha mai conosciuto, e l’esistenza di uno psicologo che la protagonista si diverte a scandalizzare inventando barocche fantasie sessuali su Hitler.
Un monologo corrosivo sul dilemma della memoria e dell’identità
Nella versione originale, il titolo del romanzo è The appointment, un riferimento laconico al punto di partenza della vicenda. Tuttavia, esiste anche un titolo alternativo: The story of a jewish cook (scelto da La Nave di Teseo per l’edizione italiana). Un titolo in linea non solo con l’irriverenza della voce narrante, ma anche con il tema del romanzo. L’autrice s’interroga sulle contraddizioni dell’identità tedesca e sull’eredità di un popolo che ha semplicemente rimosso il suo passato nazista. “Quando ero giovane” ammette la protagonista “pensavo sempre che il solo modo per superare davvero l’olocausto sarebbe stato amare un ebreo”. Il tema della memoria s’interseca con una riflessione sui corpi e sulla ferocia contenitiva delle categorie di genere, forma fisica e bellezza. Mescolando ricordi, considerazioni e aneddoti, il romanzo insiste sul senso di vergogna, una vergogna irrimediabile e multidimensionale: in quanto donna, in quanto tedesca e in quanto persona incapace di adeguarsi agli schemi della famiglia e della società.
Uno flusso ininterrotto di corrente narrativa
Dal punto di vista formale, Un cazzo ebreo è un blocco unico e compatto: 175 pagine in cui non troviamo uno stacco; non ci sono capitoli, né separazioni tra i paragrafi. È come premere play senza trovare poi il pulsante di pausa. Rapiti da un umorismo stupefacente, trasportati sulla corsia a scorrimento veloce dei pensieri della protagonista, ci ritroviamo sempre più vicini a una confessione che si spoglia dell’arroganza e delle bugie raccontate agli altri – a colleghi, genitori, psicologi, amanti – per approdare a un nodo di verità sulla fragilità umana e sul senso di isolamento. Alla fine di questo viaggio, siamo faccia a faccia con una personalità irrisolta, sbagliata, contorta e, allo stesso tempo, saldamente determinata.
Leggere l’esordio di Katharina Volkmer è un’esperienza divertente e disarmante che mette a nudo un desiderio esplosivo di riscatto dalle gabbie della società e della storia. “Penso sia ciò che la solitudine fa alle persone, dottor Seligman, dimenticano come esprimere i loro desideri”.
a cura di Annalisa Maitilasso