Il racconto del mercoledì: Apolide di Daniele Israelachvili
Mentre gli stivali affondano nella neve fresca, mi parli della stretta relazione tra forma e dimensione, e fai l’esempio del topo, le cui esili gambe possono sostenere il corpo arrotondato solo nella scala di grandezza dai due ai venticinque centimetri di lunghezza. «Se fosse grande come un elefante non potrebbe assolutamente reggersi in piedi» mi spieghi, prima che il silenzio torni ad amplificare il rumore dei nostri passi.
Sto tentando di rimanere in equilibrio sulla neve, ma mi volto comunque verso di te facendo sì con la testa anche se no, non capisco cosa dici, perché parli una lingua che avrei fatto a meno di imparare. Ma l’ho promesso alla mamma. Finalmente ci fermiamo e, dopo aver detto: «Eccoci», mi sollevi, inclinando il mio corpo, per poi infilare la testa nella grande cavità del tronco. Mentre tutto si fa buio mi viene il terrore che tu voglia spingermi dentro e abbandonarmi nel bosco, come nella favola di Hansel e Gretel che lei mi raccontava; invece mi domandi: «Lo vedi?».
Qualcosa sfiora la mia guancia e per lo spavento mi butto all’indietro sbattendo la testa. Per poco non cado dalle tue braccia. Una volta rimesso giù mi dici che d’inverno un albero cavo è il posto ideale per un alveare perché, nonostante il freddo, la scorta di miele di cui si cibano le api non si congela, grazie al calore generato dalla vibrazione di migliaia di piccole ali. Poi infili la mano dentro fino a far scomparire l’intero braccio, rimanendo con l’orecchio sul tronco, come se ascoltassi il suo battito. Una volta riemerso avvicini il pugno al mio viso e apri la mano: «Lo sforzo che devono compiere per mantenerlo caldo è massacrante, il sacrificio di alcune però assicura la sopravvivenza della famiglia». Dopo averle gettate a terra rimaniamo a osservarle per un po’, di nuovo in silenzio, poi appoggi la mano sulla mia spalla stringendo leggermente e, mentre mi domando se nella tua lingua questo sia una sorta di abbraccio, ci incamminiamo, seguendo a ritroso il sentiero dei nostri passi, verso la mia nuova casa.
Daniele Israelachvili