L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini: il disagio di periferia in una storia tragicomica. Recensione

 L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini: il disagio di periferia in una storia tragicomica. Recensione

Se ogni libro avesse un sapore, quello del romanzo di cui stiamo per parlarvi avrebbe il fascino delle orecchiette al pomomascarpone di Ugo Tognazzi, la sapidità tenue e inebriante di un dado da cucina, il pungente retrogusto della polenta con le spuntature della signora Alfreda. Il tutto si mescolerebbe con una nota di disagio di periferia romana e l’odore salmastro delle sabbie di Torvaianica, per sprofondare dritti nel brodo abissale di una vita bieca che segna il tuo destino sin dalla nascita. O dalla morte, magari di tuo padre. Stiamo parlando di L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini, entrato nella dozzina finalista del Premio Strega 2021.

L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini: trama del libro

Chi è nato a Roma o ci vive da molti anni conoscerà sicuramente il Villaggio Tognazzi, una zona di Torvaianica, non lontano da Roma, sul mare, che prese il nome – durante gli anni ’60 – da Ugo Tognazzi, per l’appunto, che lì ci comprò casa e fece gravitare intorno una serie di personaggi del cinema e tv come i Vianello, Pavarotti, Pasolini, consacrando quegli anni di lucentezza con un torneo di tennis, lo Scolapasta d’oro, a cui partecipavano vip e che ebbe successo mediatico a livello nazionale.

Ecco, tutta questa è la parte (molto) bella della storia, che rimane un ricordo e ritorna di tanto in tanto in flashback tra le labbra e le emozioni dei protagonisti.

La vita vera, adesso, è quella di Marco, un ragazzo tossicodipendente, e di sua madre, Alfreda, accumulatrice seriale che vive tra gli ingombri di roba sporca e inutile che gli bloccano il corpo e l’anima. Alfreda non ha preso bene la morte del marito Mario avvenuta in mare per cause mai chiarite. La sua demenza senile, che fa capolino in una mente già provata e in un corpo preso dall’obesità, la porta ad avere di tanto in tanto delle allucinazioni notturne: Alfreda sostiene di vedere Sandra Mondaini e di parlarci. Un giorno, presa dalla disperazione, comunica a suo figlio un suo desiderio (che poi è quello richiesto dalla Mondaini): trafugare la tomba di Raimondo Vianello dal Verano per portarla vicino a sua moglie e ricongiungere la coppia nel cimitero di Lambrate. Marco pensa sia una follia, ma un’alternativa non c’è: sua madre, in caso contrario, minaccia di suicidarsi.

È così che Marco precetta due amici storici di famiglia e frequentatori del bar di Vanda al tempo del Villaggio Tognazzi: Carlo, un pescatore con grandi capacità fisiche, e Er Donna, un travestito sui generis; e insieme a loro si imbarca in un’avventura tragicomica.

La periferia e il disagio come simbolo di verità umana

Ed è proprio in questo punto che la narrazione prende piede in un ritmo incalzante di botta e risposta, di scene descritte in modo certosino, con scambi verbali intelligenti e mosse quasi cinematografiche. Si introducono, qui, anche un altro paio di caratteri come Er Mostro, che riporteranno alla mente certi personaggi già noti al cinema italiano.

Venturini, infatti, è capace di creare uno scenario a sé, che ha, sì, il sapore dei formati pasoliniani di periferia – individui beceri a cui non affideresti nemmeno la busta piena di spesa per un attimo – o di atteggiamenti che ricordano alcuni personaggi di Amore tossico, o ancora di crocchi da Bar Sport di Stefano Benni, ma con la consapevolezza che lo stile è tutto personale; e diramando il messaggio che certi soggetti astrusi sono più comuni di quanto pensiamo e che la verità alberga tra gli asfalti di periferia, i retrobottega magari maleodoranti, e le notti piene di schiettezza tra una canna, una pisciata sul bordo di un marciapiede e una scazzottata.

Simbolo di tutto questo sono le vite al bar, quelle di individui di passaggio (in un tempo breve o diversamente lungo), come se fossero continui appuntamenti con la coscienza, propria e degli altri. Dove l’involucro si riduce a un bicchiere di alcol e l’apparenza dei corpi si disfa lasciando spazio all’essenza dell’anima, dei sentimenti:

“Quando il pescatore gettò il mozzicone, la vetrata del bar si era disappannata mostrando Er Donna in piedi davanti al bancone, che riempiva un bicchiere col vino rosso di una bottiglia senza denominazione d’origine controllata”.

Il pregio di questo libro, infatti, è che non parla tra le righe. Riporta la vera essenza umana spiattellata dritta in faccia tra debolezze, aspettative malriposte, ipotetici successi poi rovinosamente fallimentari. Lo specchio sincero di quello che non si vede oltre i sorrisi di plastica e i convenevoli di circostanza dettati dal buonismo o dalla distanza che si vuole mantenere con l’altro. E Venturini, da buon romano, padroneggia la lingua e sa dosarla bene affidando a ogni personaggio il suo modo di parlare.

“Chiese al tracagnotto di aiutarlo ma, a seguito della risposta «me doleno i reni», alla quale replicò con un severo ma giusto «mortacci tua», decise di fare da solo”.

Il revival anni ’90 e il significato della nostalgia

Dalle pagine di questo libro, se c’è un sentimento a prevalere quello è la nostalgia. E la ritroviamo in tutto: nelle parole di Alfreda, nei ricordi di Carlo e Er Donna, nelle immagini sbiadite di Mario, del mare. Ma anche in piccole intrusioni piacevoli che Venturini rivela di tanto in tanto e che si materializzano nei ricordi di motti o sigle pubblicitarie degli anni ’90, in scene e sketch televisivi che solo la mente spugna di un bambino dell’epoca può ricordare.

“[…] come il giocatore di basket della pubblicità delle caramelle gommose, quella in cui c’era un monelletto che sfidava l’atleta a succhiare una Fruit Joy senza masticarla, e il nero che prima faceva il figo gli diceva «puoi scommetterci» ma poi partiva la canzone ‘Alle morbide Fruit Joy tu resistere non puoi, devi, devi, devi masticar’ e il cestista l’addentava come non ci fosse un domani”.

E la tecnica narrativa utilizzata ricorda proprio certi meccanismi improvvisi della memoria che ci riportano alla mente, senza un motivo valido, alcuni ricordi che avevamo rimosso e che non aveva più senso rievocare. Forse.

a cura di Antonella Dilorenzo

 

 

 

 

 

 

Antonella Dilorenzo

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