Il racconto della domenica: Ioniodent di Antonio Potenza

 Il racconto della domenica: Ioniodent di Antonio Potenza

Salsedine – Illustrazione di Leo Zeni

Me ne sarei dovuto accorgere questa mattina, ma ero di fretta. Poche ore fa, di ritorno dal lavoro, con la bocca impastata di fumo, sono andato a lavarmi i denti ed ecco l’impensabile: dal tubetto del dentifricio ha cominciato a uscire acqua di mare.

La sensazione è stata perturbante, sia a causa dell’acqua gelida, che per il brio della salsedine tra gli anfratti di carne, delle labbra e delle gengive. Quella percezione era arrivata al mio cervello con un lampo elettrico, codificato poi come “familiare”. Allo stesso tempo, però, le sinapsi e gli organi dediti al riconoscimento degli input esterni mi suggerivano dall’interno della calotta cranica che qualcosa aveva infranto le mie aspettative: insomma, quello non era di certo un dentifricio.

Inebetito, guardo queste spazzole colorate, divelte e ricurve, somiglianti a palme piegate da un maremoto, che mi offrono lo sterno bianco dello spazzolino come l’interno scoperchiato di un abisso. Dalla mia faccia allo specchio non giungono suggerimenti o intuizioni. Spremo nuovamente per sicurezza, ma dalla bocca tonda del tubicino sgorga nuovamente un rivolo azzurrognolo di acqua, che questa volta porta con sé anche delle briciole di alghe.

Prendo il cellulare e chiamo Fabio. Sono in auto, dice.

Affannato, gli spiego la situazione.

Fabio, chiaramente, si mette a ridere – mentre da lontano arriva nitido il rumore di un clacson – e crede che io stia scherzando. Peccato non possa lavarmi i denti, ribatto, ma lui ha la soluzione pronta: a questo punto rubane un po’ ai tuoi coinquilini, no? Riattacco senza nemmeno ringraziarlo, rimango piccato dal fatto di non essere stato preso seriamente. Comincio subito la ricerca, frugo nei beauty-case dei miei coinquilini, tra i cassetti, rovisto tra mutande e calzini, senza un risultato.

Mi attraversa una specie di sconquassamento. Avvicino il tubicino all’occhio e non intravedo la solita parete fluorescente, ma le ombre di un antro scuro. Non ho alternative se non andare al supermercato. Sotto una pioggia battente, supero a passo svelto la piazza verso via Leoncavallo e dai lampioni scorgo il movimento puntinato del temporale. Prima di entrare nel supermercato mi chiedo se sia possibile vedere, a questo punto, palle gonfie di dentifricio cadere come proiettili sulla terra e far rinvenire l’asfalto con l’odore pungente della menta. Sarebbe forse un bel mondo.

Il supermercato è praticamente preso d’assalto dalla gente, che violenta, si dimena tra un reparto e l’altro, arraffando avidamente cibo e viveri. A guardarli mi viene il dubbio che mi sia sfuggita un’apocalisse, o qualche tipo di stato emergenziale, o ancora che il dentifricio si sia trasfigurato in tutte le case.

Sorvolo su questa isteria e mi faccio spazio verso il punto informazioni, dove una ragazza dalle guance tonde e i capelli corvini martella sulla tastiera del pc. Le chiedo se può spiegarmi l’accaduto e le tiro fuori il dentifricio. La signorina, vistosamente concentrata su altro, non sposta gli occhi dallo schermo. L’ha comprato bucato? No. La confezione era difettosa? In un certo qual modo. Vuole cambiarlo? Certamente, rispondo; e mi invia verso il reparto. Lascio il vecchio tubetto sul bancone, lei lo guarda appena, poi fa un cenno per acconsentire la sua restituzione. Arrivato di fronte alla parete metallica, ho una certa esitazione. Ne prendo un altro, scegliendo quello di una marca differente e, scuotendolo un po’, mi sembra della consistenza giusta; ignoro cosa sia successo al mio dentifricio, ma adesso sono pervaso da una felicità risoluta. Alzo il trofeo alla signorina, che risponde a sua volta con un segno della mano, e vado via, mentre le saracinesche si chiudono alle mie spalle.

Quindi sono di nuovo a casa intento a osservare il mio viso sulla superficie sporca dello specchio. Capita a volte che io rimanga immobile a scrutarmi. Succede maggiormente nei momenti di tensione. In qualche modo l’immobilità mi permette di rilassare i nervi, distendere le fasce muscolari, allentare l’azione del bruxismo sulle gengive. Così, quando le superfici smaltate smettono di sfregare tra di loro, si rompe l’incantesimo, la tensione è liquefatta e smetto di osservarmi per gettarmi in una pulizia approfondita dei denti; finalmente esco dal bagno. Era successo questo, appena tornato dal lavoro, che mi fossi bloccato per un tempo incalcolabile contro la mia immagine speculare, quindi rotto il magnetismo mi apprestavo a lavare i denti: sinceramente non avevo calcolato la transustanziazione del mio dentifricio in spuma di mare.

Ora il rischio c’è nuovamente: il tubetto precedente poteva non essere l’unico; magari faceva parte di un lotto difettoso. Non sono totalmente sicuro di aver risolto il problema.

Sono certo che quest’uomo riflesso sullo specchio, qui dinanzi a me, che mi guarda adesso, da quell’altra parte, non ha problemi d’ansia del genere: mentre io digrigno i denti, consumando lo smalto dei molari, lui se ne sta lì imperturbabile a fissarmi, con la mascella lunga e la barba incolta. Nei suoi occhi scorgo due iridi grandi, quasi eccessive per il ritaglio di pelle e ossa che le ospita. A tratti mi pare spuntino fuori, appena oltre il limite orbitale, e allora il loro colore azzurrognolo si accende, le striature bluastre si allargano superando prima le tende composte dalle carni molli delle palpebre poi sfiorando gli zigomi pizzicati dalla barba, straripano fino ai suoi lobi pendenti che riempiono di riflessi languidi, pennellate ondulate disfano i disegni circolari dell’elice, l’antielice ora è solo un’ombra cupa, morbide inclinazioni di mare divorano silentemente ciò che rimane delle sue orecchie: oltre la risacca soffice, si erge il traco come l’ultimo sopravvissuto del maremoto. Dalle spalle di quest’uomo, si allarga una composizione frastagliata dai colori scuri; escrescenze carbonatiche si allacciano confusamente; scheletri di madrepore si rivelano sulla superficie ispida come nei bianchicci; tumori di calce si allargano sulla scogliera a strapiombo su una distesa verdognola che i miei componenti cerebrali fusiformi non riconoscono. Secondo le informazioni catalogate all’interno dei loro corpuscoli porosi, lì oltre quei denti di carbonio, avrebbe dovuto dondolarsi placido il mare, con le increspature candide a lampeggiare la loro presenza. Invece, adesso, in questa epifania riflessa, ciò che avrebbe dovuto essere non è, ciò che perturbante si manifesta alla mia coscienza è una distesa fluorescente, che mi restituisce la sensazione di una composizione molliccia.

Mi sembra quasi di percepirne l’odore di menta. Non sono più sorpreso allora di questo movimento di reflusso, se il mare è ora una mescolanza di fluoro e mentolo, non ho reticenze nell’accettare che nel mio tubicino ci sia invece idrogeno, ossigeno, anidride carbonica, sali nitrati e fosfati, boro, silicio e bromo.

I denti smettono di sfregare, l’allentamento del bruxismo decide la mia libertà.

Svito allora il tubicino, lo avvicino alle spatole sfaldate e premo. Dall’orifizio di plastica fuoriesce, densa e compatta, una lingua verdognola di dentifricio. Lo specchio mi rimanda i solchi della mia faccia incredula, proprio mentre Fabio mi chiama. Rispondo con lo spazzolino ancora in bocca.

Non trattiene l’entusiasmo. Hai vinto dieci mila euro, grida attraverso il telefono.

Non capisco, quindi si premura di spiegarmi. La Ioniodent ha organizzato un concorso offrendo un montepremi in denaro a chi avesse trovato l’unico tubetto contenente acqua salmastra. Ce l’hai ancora, vero? Mi fa.

Maledico la ragazza del banco informazioni e la sua fortuna distratta.

Antonio Potenza

Blam

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