Il racconto della domenica: Numero 13 di Arianna Cislacchi

 Il racconto della domenica: Numero 13 di Arianna Cislacchi

Illustrazione di Francesca Galli

Svoltato l’angolo, se lo ritrovò davanti, all’improvviso: era un edificio immenso, vecchio e privo di colori; tirò fuori dalla borsa una fotografia e la sollevò più o meno all’altezza del terzo piano: la confrontò per un istante, prima di metterla via.

«Dev’essere qui.»

Si avvicinò all’ingresso e le porte scorrevoli si aprirono come per magia; le superò a passo spedito stringendo la tracolla sul fianco, un gesto che aveva ripetuto almeno una ventina di volte durante il viaggio. Quando l’aveva con sé, non poteva fare a meno di preoccuparsene. Era una di quelle borse molto costose, di cuoio, dalla linea unica e ricercata; di certo ammaliava molti occhi. Ed era gonfia, gonfia di documenti.

Una volta dentro, rimase al centro del triage a contemplare l’immensità dell’ospedale. Di così grandi non ne aveva ancora visti. Posò lo sguardo un po’ ovunque, dal soffitto ai camici svolazzanti, fino alle macchinette degli snack. Poi, aprì con discrezione la tracolla, tirò fuori un foglio e lo lesse da cima a fondo. C’era tutto: i dati personali, la legge sulla privacy, la data, l’indirizzo, la città e una riga vuota sulla destra dove apporre la firma. Guardò l’ora: era in perfetto anticipo. Cercò tra le indicazioni i nomi dei reparti e i rispettivi piani, quando finalmente trovò il suo, piegò via il documento.

«Ci siamo», sospirò.

Chiuse i bottoni del tailleur, sistemò la camicetta, la gonna, il fermaglio sui lunghi capelli neri e andò dritta verso il reparto di oncologia. Sperava di fare meno rumore con quei tacchi maledetti, ma il suono riecheggiò fastidioso sovrapponendosi al brusio della sala d’attesa. Stava per superare la porta, quando una voce tuonò alle sue spalle.

«Signorina! Ehi, signorina! Sì, dico a lei, dove crede di andare scusi?»

Ce l’avevano con lei? Si voltò, torturandosi l’orecchio con le dita. Una signora di mezza età dalla corporatura massiccia le fece cenno di avvicinarsi allo sportello; tornò indietro preoccupata, ma cercò di mascherarlo con il più gentile dei sorrisi.

«Buongiorno. Qualcosa non va?»

L’operatrice stava masticando con disgusto una barretta dietetica; la sua bocca si apriva volgarmente mostrando i denti giallognoli. Perdeva saliva come un lama. Alla ragazza venne il voltastomaco e si girò dall’altra parte.

«Ah, lo chiede pure? Cosa si crede, la più furba? Guardi che l’ho vista, è appena entrata. Deve prendere il numerino. Cosa pensa stia a fare tutta quella gente seduta laggiù? La muffa?»

L’operatrice alzò la voce apposta per farsi sentire. Ancora una volta l’eroina del momento, la salvatrice dei giusti e degli onesti. La gente per un solo istante, si girò verso di loro. La ragazza divenne rossa in volto e prese a balbettare.

«Ho un p-permesso…»

«Qua non si salta la fila, prenda il numero e vada a sedersi.»

La giovane cominciò a spazientirsi. Fece un bel respiro.

«Io non sto saltando nessuna fila. Ho un permesso speciale, le dico.»

L’operatrice, annoiata, sussurrò qualcosa alla collega vicino; si sentì una risata roca, e due colpi di tosse da fumatrice esperta. Finite le battute, tornò da lei, incrociando le dita cicciotte. Aspettò con il tipico odio che si prova nei confronti dei privilegiati.

La donna, a disagio, rovistò in fretta nella borsa e tirò fuori un cartellino plastificato: sopra c’era una fototessera e i suoi dati. La signora non fece nemmeno lo sforzo di avvicinare le mani per prenderlo: allungò il muso da mastino vicino al vetro e scrutò scettica il tesserino. Sembrò rileggerlo più volte, manco fosse scritto in un’altra lingua, e nonostante ci fossero giusto il nome, la data di nascita e l’impiego, lo rilesse per un minuto intero. Improvvisamente, cambiò espressione: lo stupore s’impadronì dei suoi lineamenti, li deformò a tal punto che non promettevano nulla di buono; adesso la stava guardando sì, ma non più come prima. Era schifata, contrariata, infastidita. Poi, indietreggiò sullo schienale, e cominciò a ridere, rise così forte che quasi si strozzò.

«Cos’è, uno scherzo?»

La domanda sembrò disorientarla: studiò il tesserino, poi il donnone, e di nuovo il tesserino stringendosi nelle spalle.

«Non mi permetterei mai, guardi che io…»

L’operatrice tornò seria in un lampo e batté le mani sulla scrivania.

«Mi stia bene a sentire, adesso mi sono rotta. Lei si prende gioco della gente per bene, questo è un ospedale, non un circo! O prende il numero, oppure fuori di qui!»

La ragazza arretrò spaventata. Non poteva crederci. Quando mai le era capitata una cosa simile? Frugando nei ricordi non le venne in mente nulla, a parte quella volta che per poco non la fecero salire sulla nave da crociera a Copenaghen, ma per il resto… Controllò l’orologio e si accorse di quanto fosse tardi. La donnona le fece cenno di smammare. Alla fine, si arrese: strappò il numero e s’incamminò verso la sala d’attesa pestando i piedi, seguita dallo sguardo severo dell’operatrice.

«Non ti preoccupare, prima o poi…»

Ma scosse la testa, e si impose di non fare brutti pensieri. Trovò una sedia libera vicino a un signore molto anziano.

«Le dispiace?»

Cercò i suoi occhi mentre si accomodava, ma questo dormiva profondamente, accovacciato con il mento sul petto, e il cappello a nasconderne il viso; la giovane portò la borsa sulle ginocchia; prese tra le mani il documento di prima, quello lungo, dettagliato, con la firma mancante. Immaginò cosa le avrebbe detto il suo superiore una volta rientrata. Aveva cominciato da poco quel lavoro: il capo era rimasto colpito dalla sua impeccabile diligenza, dalla precisione e velocità con cui svolgeva i compiti assegnati, anche i più difficili. Il giorno dell’assunzione, ricorda, fecero due feste: una per il suo arrivo, e l’altra per la collega che andava in pensione. Non le era ancora capitato di mancare a un appuntamento, aveva sempre tutto sotto controllo. Eppure, questa volta, una sciocca qualunque le aveva impedito di portare a termine il compito nei tempi prestabiliti.

Tamburellò le dita sul foglio, chiuse e richiuse la tracolla, accavallò le gambe e incrociò le braccia; respirava affannosamente, non stava ferma un attimo. Se ne accorse persino il vecchio accanto a lei che spezzò il silenzio con una risata.

«Signorina, fa più rumore di mia moglie quando russa. O meglio, russava. Ormai, non so nemmeno più se considerarla viva o morta. Un essere vivente o un vegetale. Secondo lei che cos’è una persona in coma irreversibile? La si può ancora considerare tale?»

La giovane rimase ferma al suo posto, ascoltò in silenzio e si girò per guardarlo meglio. Notò il grigiore dei capelli, le rughe, la carne scavata, le pesanti occhiaie scure come nei, e una stanchezza infinita dietro gli occhi. Pensò che fosse lì lì anche lui ormai, per salutare questo mondo.

«Credo che il coma irreversibile sia come un ponte. Un ponte tra qui e là. Sua moglie non è più né l’una né l’altra cosa. È ancora fatta di carne, nonostante la sua anima sia appesa a un filo. Sta già provando ad andarsene, ma non è una cosa così semplice, la strada non la può trovare da sola. Forse, la cosa migliore è che sua moglie possa andarsene via definitivamente. Così sarebbe di nuovo la donna che conosce. Solo, dall’altra parte.»

Il vecchio la scrutò con grande interesse; non sembrò così sorpreso da quel discorso, discorso che in fondo proveniva da una perfetta sconosciuta. Ormai, cercava appiglio a qualsiasi spiegazione che gli desse un minimo di conforto. Annuì un paio di volte, sistemò il cappello e guardò per terra.

«Sa, mia moglie si trova proprio in questo ospedale. Ma non ci fanno entrare tutti. Dobbiamo fare i turni. E al momento, dentro…»

Nell’ala risuonò il numero 13. La donna si alzò all’improvviso, afferrando tutte le sue cose. Posò una mano su quella di lui, callosa, lavoratrice, docile. Il vecchio per un momento sembrò preoccupato.

«Chi le farà vedere la strada allora?»

Lei sorrise dolcemente.

«Andrà tutto bene. Glielo prometto.»

L’uomo la guardò ancora una volta con quei suoi occhietti vispi e pensierosi. A quelle parole si rilassò inspiegabilmente. Le sorrise senza aggiungere altro e la salutò con un cenno della testa. Si strinsero la mano, prima di lasciarsi.

La giovane si allontanò di corsa, superò gli sportelli ignorando il borbottio dell’operatrice antipatica, e sfilò nel corridoio con sicurezza. Superò medici, barelle, infermieri, visitatori, pazienti. Finalmente raggiunse la stanza in cui, stesa nel letto e avvolta da un grumo di lenzuola bianche c’era un’anziana donna. Il respiratore era lì, inerme, accanto a lei. Flebo, lacci, marchingegni d’ogni genere s’intrecciavano lungo quel corpo ormai stanco e debole. Le si avvicinò senza far rumore e posò piano il palmo sul suo petto, un petto che ormai fingeva di alzarsi e abbassarsi, che credeva ancora di essere autonomo e invincibile.

«Scusami se ci ho messo tanto,» sussurrò la giovane mentre posava la borsa a terra; si piegò in avanti e iniziò a frugare rapidamente al suo interno. Tirò fuori il fatidico documento e lo studiò un’ultima volta prima di porgerlo, assieme a un’elegante stilografica, alla vecchia.

«Una firma qui, grazie.»

«Era ora, ma dov’eri finita?»

La vecchia si staccò dal corpo e si sedette accanto alla giovane. Guardò il suo involucro nel letto, rinsecchito dalla malattia. Sbirciò i battiti e sentì il macchinario sospirare, lanciando un bip lungo e infinito.

«Storia lunga. Ho incontrato un’operatrice molto scortese, e poi… ho visto tuo marito.»

L’anima batté le mani e si alzò da lì scuotendo la testa.

«Quel testone. Mi fa perdere tempo pure da morta. Coraggio, andiamo.»

La Morte si sistemò i bottoni del tailleur e sorrise.

«Sì, andiamo.»

Arianna Cislacchi

Blam

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