Il racconto del mercoledì: Le uova nelle tue orecchie di Caterina Villa
C’è un dentro e c’è un fuori. E il confine ti si sposta sotto i piedi da un momento all’altro. Esiti, allunghi il piede e speri che sotto ci sia la corda per attraversare incolume il burrone che si apre tra te e il mondo. Pensavi fosse così per tutti. Ma i tuoi equilibrismi non sono mai stati come quelli degli altri. Ora lo sai.
Se ti chiedessero di descrivere come eri da bambino, da qualche parte nella testa ti si formerebbe l’immagine di un bimbo arrabbiato, intento ad appendere stelle finte in un cielo finto. Una scenografia a cui mancava sempre un pezzo.
I tuoi ricordi non sono mai suoni.
Della casa al mare ricordi l’azzurro delle ringhiere, l’ombra del sale sui vetri, le parole crociate di tuo padre sul tavolo scheggiato della veranda, le lacrime di Marco quell’anno terribile che gli spampinò l’infanzia.
Non sapresti dire di cicale, di coccobello, del drin drin delle biciclette in lontananza.
Semmai parleresti del calore della sabbia sotto i piedi, dell’odore di plastica sporca del pallone da calcio. Del tumulto del tuo corpo che cresce.
Se ti chiedessi dei tuoi anni di scuola, mi diresti dell’odore di sudore negli spogliatoi, della ragazza al banco in prima fila a sinistra, di Pietro con quei ridicoli rasta. E di quando se li tagliò ma ne conservò uno, uno solo, in freezer, come ricordo.
Non mi diresti di campanelle e dello squittio delle scarpe contro il legno del campo da basket, né dei primi gemiti che sei riuscito a tirar fuori dalla bocca di una ragazza.
Mi diresti della musica, quello sì. Ma non mi diresti che la musica è l’ago che si è infilato dritto nel cuore di plastica del palloncino per poi sfilarsi veloce e portarsi dietro tutta l’aria.
Non me lo diresti. Ma io so che è così.
La musica è stata la mano che ti ha spinto.
E giù sei andato.
In un posto dove c’eri solo tu e la chiara densa e lucida delle uova nelle tue orecchie. E le stelle e il cielo finti erano un guscio tutt’intorno.
Se te lo chiedessi, mi diresti che non è stato facile capire che noi qui fuori sentiamo quel cinguettio e quella frenata e quel ticchettio e quel sospiro. Che noi qui fuori non guardiamo le labbra di chi abbiamo di fronte per capire cosa sta dicendo.
Ma io non te lo chiedo.
Non ti chiedo di dirmi come senti tu il mondo. Se è come un tonfo sordo, un fischio persistente. Come mettere la testa sotto il cuscino. O come avere le uova nelle orecchie.
Il tuo guscio di cartapesta lo hai rotto, ma le tue vecchie stelle di carta le porti nascoste nelle pieghe che hai dentro.
A volte la mattina mi sveglio e tu dormi. Ascolto imprecisati uccellini che trillano fuori. Penso che non facciano parte della tua versione di mondo.
Allora chiudo gli occhi e mi curvo contro la tua schiena e cerco di dimenticare questi suoni che non sono i tuoi.
Mi curvo su di te e cerco le stelle che hai dentro.
Caterina Villa