Il racconto della domenica: Il prigioniero di Edoardo Arzenton
Il racconto inizia con Laura che mi insulta ma io non capisco cosa sta dicendo perché sono impegnato a scrivere. Alzo appena lo sguardo, vedo che gesticola stravolta, si agita come un personaggio dei cartoni animati – bella immagine, la scrivo – lancia l’ennesimo insulto nei miei confronti, un aggettivo diverso dal solito che per un momento penso se inserire o meno nel racconto ma alla fine scelgo di no, preferisco mantenere il mistero. Le mie dita battono veloci sui tasti del portatile, quando Laura interrompe il suo monologo per bere dell’acqua – la descrivo mentre apre la credenza in cucina e recupera un bicchiere.
Per un po’ non succede niente, anche se so che si tratta soltanto di una pausa. Vedi, è questo il problema, dice con voce sospettosamente calma. Non fai altro che scrivere. Mentre mangiamo, in vacanza, dai miei genitori, cristo, tra un po’ tirerai fuori carta e penna anche quando scopiamo. Laura sospira. A questo punto potrei dire, amore, è il mio mestiere, lo sapevi quando mi hai sposato, ma non lo faccio perché è una strada già percorsa, e io ho bisogno di stimoli nuovi. Digito il punto e la guardo. Laura strizza gli occhi. Poi solleva le spalle come un condor e grida: tu stai scrivendo, tu stai scrivendo di questo momento, stai scrivendo di noi che litighiamo. Mentre parla, sputa e balbetta, faccio fatica a starle dietro sui tasti. Amore, che dici, le dico. Vedo che si avvicina a lunghe falcate, afferra il portatile e indica lo schermo. Maledetto maniaco, hai persino scritto “faccio fatica a starle dietro sui tasti”. Tu sei malato. Allora le strappo il portatile dalle mani e me lo rimetto sulle gambe, che poi è la posizione più comoda per scrivere. Laura crolla sul divano accanto a me. Chiude gli occhi e dice: sei completamente dissociato dalla realtà. E poi: hai bisogno di aiuto.
Passa un altro minuto nel quale si sentono solo le mie dita sulla tastiera. Torno da mia madre, dice Laura, e mentre si alza fa cadere un cuscino per terra. Una frase un po’ banale – questo lo scrivo ma non lo dico – troppo teatrale e finta. “Torno da mia madre”. Poi un pensiero mi colpisce. È una frase banale, d’accordo, ma Laura l’ha detta sul serio. La sento di là in camera che scorre i vestiti nell’armadio, i blocchi della valigia che scattano, il rumore delle rotelle sul parquet. Solamente quando Laura è alla porta termino di battere i tasti, faccio per alzarmi poi preferisco aggiornare il file scrivendo “preferisco aggiornare il file scrivendo”, e allora vengo travolto dalla verità, sento che non riesco a fermarmi, sento che non posso fare altro che scrivere, ogni gesto, ogni pensiero, ogni frase, ma questo significa – Laura si chiude la porta alle spalle – che sono prigioniero, che vivo in una cella senza sbarre, vivo dentro – dalla finestra vedo Laura entrare in macchina, sento la portiera sbattere e il rombo del motore – muri fatti di parole, dio mio devo uscire devo alzarmi alzati stupido oh no scrivo troppo veloce e ho dimenticato le virgole mi indispongono simili orrori ortografici respira respira ma perché fai così non è vita questa la vita è là fuori esci esci spingi spingi! No. Mi fermo a considerare la cosa. Resto qualche istante a fissare il tappeto Mondrian del salotto. Poi penso, idea mica male, questa. Laura che mi lascia e io che ne scrivo mentre mi lascia, un ottimo racconto, l’unica cosa che mi scoccia è non sapere se lo sto vivendo davvero oppure no. Il racconto inizia con Laura che mi insulta…
Edoardo Arzenton