Il racconto del mercoledì: La mano di Wanda M. Hartmann
Aveva la mano destra aggrovigliata intorno al polso, come le radici di un pino secolare. Le dita, schiacciate contro il palmo, creavano una piccola conca. Lì dentro, nella pelle squamosa e umida, all’incrocio delle linee che avevano deformato il suo destino, c’era il buio. Da quando era nato. Al settimo mese si girò di traverso, e le pinze che usarono per tirarlo fuori gli provocarono una malformazione all’altezza dei nervi del gomito. Bastò questo perché i dottori estraessero un paffutello biondo e disabile. La sua mano destra si era serrata e non si era più aperta. In ospedale dissero che gli era andata bene. Poteva restarci secco, se quel forchettone di acciaio gli avesse agganciato la testa e invece, fortuna sua, conviveva da trentadue anni con una sequoia all’estremità del polso destro. Con il tempo si era abituato a pensare che quello fosse un segno del destino, qualcosa di mistico, di violentemente sacro. Il fatto di essere nato il 10 dicembre, giorno della traslazione della Santa Casa di Loreto, lo aveva convinto che fosse un predestinato. Sua nonna, una vecchia che puzzava di aglio e santità, glielo ripeteva spesso, mentre gli tagliava le unghie che crescevano dure e curve come piccole sciabole. Doveva soffrire in questa vita per meritarsi chissà quale capolavoro nell’aldilà. Un pellegrinaggio dopo l’altro aveva rinforzato così tanto questa convinzione che nel 1994, anno del settecentesimo anniversario della traslazione, ebbe un desiderio.
«Voglio cambiarmi il nome» mi disse.
«Che c’ha il tuo che non va, Andrè?»
«Niente. Ma me ne voglio scegliere un altro. Uno mio.»
«E quale?»
Non rispose. Mi chiese solo di accompagnarlo.
Annuii.
Qualche settimana dopo, si presentò a casa con una marca da bollo. «Ho un appuntamento in prefettura» disse.
Decise di chiamarsi Angelo e da quel giorno sarebbe stato un figlio prediletto del Signore.
«Come ti senti adesso, Angelo?» gli chiesi scendendo le scale dell’ufficio anagrafe.
«Bene Stè, bene!»
«E perché c’hai ’sta faccia allora?»
«Che faccia?»
«Angelì, c’hai la faccia che tra un po’ ti cade per terra» dissi. «Chi prendi per il culo?»
Grugnì.
«Devo dirtela tutta?»
Ansimò fissando i fogli che teneva in mano. Li agitò in aria come se avesse intorno uno sciame di api assassine. «Pensavo meglio.»
«E che ti aspettavi, che ti si riaprisse la mano?»
Rise mostrandomi il pugno accartocciato. Ebbi l’impressione che il suo dito medio si fosse miracolosamente sollevato da quel groviglio per mandarmi a fanculo.
Passò qualche giorno, venne una domenica calda e incerta. Andammo alla messa delle undici, la chiesa era affollata. Oltrepassato il portone, fissò l’altare e si fece il segno della croce toccandosi qua e là con il dorso della mano. Un gesto leggero, nonostante avesse la sensibilità di una pietra. Feci lo stesso sfiorandomi la fronte con l’acqua benedetta. L’incenso ci avvolse in un fumo d’oppio miracoloso.
Wanda M. Hartmann