Il racconto della domenica: Brucia la campagna di Daniele Sartini

 Il racconto della domenica: Brucia la campagna di Daniele Sartini

Illustrazione di Francesca Galli

Era tutto diverso se prima di parlare accendeva un sigaro. L’avevo imparato la sera in cui mia madre se n’era andata. A quel tempo, il mio corpo aveva l’inconsistenza dei nove anni: un piccolo mucchio di ossa e carne che un padre solleva quasi con indifferenza. Mi prese e mi adagiò sulle gambe. Frugò dentro la tasca della giacca da pesca e tirò fuori un sigaro. Lo tenne stretto tra le dita tozze, ruotandolo sotto la fiamma dell’accendino. Osservava la punta infiammarsi e diventare cenere grigia e compatta. Lo infilò tra le labbra e diede tre brevi tirate.

«Non torna più» disse.

Tre parole mescolate alla nuvola che sputava dalla bocca e che spariva nella campagna spalancata davanti a casa. Sapeva di cuoio, frutta secca e fumo.

«Non torna più.»

Secco. Diretto. Come non si dovrebbe essere con un bambino. Così era stato, semplicemente perché non conosceva altro modo. Poi tirò una boccata più lunga e la soffiò sopra le nostre teste, verso i colori del tramonto. Tanta fu la forza con cui lo fece, da farmi pensare che li volesse cancellare. La veranda della nostra casa si affacciava sul cortile dov’era parcheggiata la vecchia Ford. Aveva un faro rotto, una riga lunga e profonda sul lato destro della carrozzeria e la porta posteriore ammaccata. Non l’aveva mai fatta aggiustare: «Non vale la pena buttare soldi in una macchina che funziona ancora» diceva. Io e lui eravamo appena diventati come quell’auto, senza accorgercene. Due cose deformate, piene di righe, ammaccate in punti che non si vedevano, ma che comunque facevano ciò che dovevano.

Era accaduta per colpa di mia madre, la trasformazione.

«E allora vai!» era l’unica cosa che mio padre le aveva urlato. Sempre tre parole. Secche. Dirette. L’avevo sentito dalla mia camera. Insieme ai passi frettolosi, ai gesti sporchi di cose che cadono, e a quella porta che si apriva e richiudeva. Di continuo.

L’avevo immaginata superare il muro che delimitava la campagna, che da sempre isolava e difendeva la nostra famiglia. Da tutto e tutti. Una protezione che era anche prigione.

A quattordici anni ho iniziato a fumare. Era l’unico modo che avevo trovato per dire a mio padre che gli volevo bene. Ucciderci insieme, la sera, seduti uno accanto all’altro in veranda, mentre pensavamo a come schivare la confusione delle cose che ci accadevano intorno. Il suo lavoro di boscaiolo che rendeva sempre meno, la mia ricerca di qualcosa che mi portasse un po’ di soldi in tasca. La casa disadorna, la dispensa perennemente vuota. Esistevamo, questo era il verbo giusto per noi. Esistere, ché vivere doveva essere tutt’altra cosa. Una cosa che avevamo dimenticato. Eravamo diventati come le piante che vedevamo ogni mattina al risveglio, in mezzo alle quali spariva la strada sterrata che conduceva a casa nostra, e che stavano dritte solo grazie alle loro radici. Profonde e grandi.

Il primo sigaro me lo diede lui. Lo accese davanti ai miei occhi, lo tirò un paio di volte, controllò che la punta fumasse bene e me lo passò. Sentii la bocca riempirsi di sapori diversi, che lottavano. Mio padre mi guardava. Annuì al mio primo sbuffo, poi si dedicò al suo.

Evitavamo il più possibile di attraversare la campagna, perché oltre il muro di alberi, cespugli e muschio c’erano gli sguardi degli altri, pieni della loro inutile compassione. Non eravamo quello. Non volevamo quello. Noi eravamo diventati silenzio e fumo di sigaro. Un rito che ci univa e che, al tempo stesso, ci teneva lontanissimi. Fumavamo i Toscani. Andavo io a comprare una scatola a settimana in città, al piccolo tabacchi che faceva angolo. «Odoralo» mi disse una sera, prima che ne accendessi uno. Avvicinai quel bastoncino di colore marrone scuro al naso. Non sapevo che cosa volesse dirmi, ma l’odore di cuoio e forse pepe e legni stagionati mi sembrò qualcosa di buono, che dentro al fumo non avevo ancora sentito. «Kentucky. Il tabacco è Kentucky nordamericano» aggiunse. Non capii perché me lo dicesse, ma pensai a un luogo lontano e sconosciuto. Che mi fece stare bene.

Una notte, poi, l’ho sognato mio padre: era vestito e stava sotto una cascata d’acqua che nella nostra campagna non esisteva. Mi diceva: «Dobbiamo ricominciare anche senza di lei: io posso morire in pace e tu vivere». L’acqua lo ricopriva completamente ma, una volta uscito, i suoi abiti erano asciutti. Anche nel sogno, lo vedevo accendersi un sigaro. Pensavo che mentisse: non sarebbe stato possibile vivere, perché gli abbandoni sono violenze che non se ne vanno. Sono bravi a nascondersi e a tornare, ogni giorno, dentro alle cose vecchie lasciate a casa, dentro ai respiri. Nelle boccate di fumo che sanno di quest’odore nuovo, che prima non c’era. Un odore che il fuoco trasforma e restituisce mutato. Gli abbandoni nascondono tutte le parole, che bruciano strette tra le foglie arrotolate di Kentucky nordamericano. Dentro a quel mozzicone ancora acceso di Toscano, che mio padre, in sogno, gettava a terra e che, di colpo, incendiava la campagna intorno a noi.

Daniele Sartini

 

Blam

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