Il racconto della domenica: Lona a Negapoli di Adriano Manca

 Il racconto della domenica: Lona a Negapoli di Adriano Manca

Illustrazione di Manfredi Ciminale

Lona mi guarda da dietro la vetrina, svampita come al solito. Cristo, a volte sembra una creatura aliena naufragata in questo angolo di galassia. Sta ammirando una patacca di crema che chiaramente mi sono scordato di pulire. Mette un’attenzione assurda nella cosa, come se fosse un’entomologa e avesse davanti una specie rarissima. La testa mi scoppia, già tanto essere riuscito ad arrivare in tempo in pasticceria. Ieri ho fatto una cazzata, ma era impossibile passare sopra le offese di Gianluca, pensa di essere come suo padre, il padrone della città.

«Ti devi far vedere l’occhio Mirko, sembra una susina.»

«Una susina?»

«Sì, di quelle rosse rosse, hai presente?»

«Ma che dici, Lona? Ma che paragone è? Almeno tuo padre era italiano, no? Non te l’ha insegnato a parlare?»

Mi fissa, per un attimo sembra che voglia divorarmi la faccia a morsi, poi tutto passa in pochi secondi, ritorna alla sua aria svampita e aliena, si siede e tira fuori dalla borsa quella roba che legge sempre, i diari di Sylvia Plath.

Non so perché Lona abbia deciso di stare con me, davvero non ho spiegazioni. Penso sia biologicamente incapace di amare. Per quello che riguarda me, non saprei, direi di essere innamorato ma non sono sicuro. Forse perché lei è una sorta di alieno, quindi sono il primo umano a imbarcarsi in un rapporto extraterrestre, se l’Ungheria conta come località extraplanetaria. Il magiaro sembra una lingua parlata da alieni sfigati che vagabondano per lo spazio in cerca di una casa. Il modo in cui suona, la trascrizione, ogni cosa legata all’Ungheria sembra avvolta da uno strato cutaneo di incomprensibilità irrimediabile.

Lona non lavora, non ne ha bisogno, sua madre era l’ultima discendente di una famiglia di principi, o qualcosa del genere. Sarò onesto, la cosa mi piace, che uno come me, nè carne nè pesce quanto a discendenze familiari, stia con una sorta di testamento vivente dell’Europa delle crociate, delle lotte di religione e delle rivolte contadine. Non è così solo per me, ma per tutti quelli che hanno a che fare con Lona; qui in città di storia non ne abbiamo molta, siamo un branco di sradicati. Negapoli è una città di fondazione fascista, nata per diventare il polo della ricerca universitaria italiana. Le vie sono tutte dedicate ai grandi pensatori cari al regime, l’anno scorso è scoppiata una polemica infinita, volevano ribattezzare via Pound in via De Andrè, alla fine è rimasta così e sono contento, io in via Ezra Pound ci sono cresciuto.

«Hai finito di stare con gli occhi incollati al suo culo?» Miranda, la mia capa, una lesbica inconsapevole che continua a stare con quel soprammobile di suo marito. Ce l’ha con me perché sono una pessima influenza per Lona, verso cui ha un’attrazione inconfessata a metà tra il materno e il ti-leccherei-quelle-tette-sode-come-fossero-un-gelato. Una brava persona alla fine dei conti, ma sarei molto più contento se una buona volta si decidesse a mandare a cagare l’uomo inutile con cui è sposata e si chiavasse una bella gnocca. Certo, poi rimarrei disoccupato, visto che la pasticceria è del marito.

Dall’alto la città sembra una barriera corallina sommersa nel mare notturno. I grattacieli del CREN, Centro di Ricerca d’Eccellenza Nazionale, svettano solitari e presuntuosi, come se nessuno li avesse avvisati che sono finiti i fasti di un tempo, che gli stormi di studenti che un tempo migravano qui ora vanno altrove. Siamo rimasti noi, nipoti dei coloni veneti attirati con promesse di terra e benessere. Non si sta male, forse è quello che ci frega. Do un sorso di birra e guardo il panorama con un fare che potrei definire solo come “Lonesco”, sento che lei mi sta osservando, penso le piaccia questa cosa che sto assumendo delle caratteristiche tutte sue. L’inverso non vale, non ritrovo i miei gesti in lei e non credo sarebbe possibile, niente sembra lasciare un segno nella sua alterità d’acciaio.

«Tu vorresti andar via? All’estero?» mi chiede.

«Avrei dovuto pensarci prima.»

Per un attimo noto un’incrinatura di tristezza nell’impassibilità sorridente di Lona. Lei ha vissuto in mezza Europa prima di fermarsi. Non parla mai di Budapest, o della madre. Qui tutti se la ricordano, andava in giro in tuta da operaio, fregandosene delle facce sbalordite della gente. Un’enorme cicatrice le percorreva il volto come la cresta di un’onda. Metà faccia, bianca; l’altra metà, purpurea.

Finiamo la birra e corriamo nel cuore del parchetto panoramico, Lona quando corre sembra uno spaventapasseri, le braccia lunghe e magrissime perpendicolari al corpo, una felpa extra large che letteralmente le crolla addosso mettendone in mostra le spalle color luna. Io cerco di darmi un contegno, come sempre, neanche fossi di fronte a una giuria pronta a votare il miglior corridore notturno di parchi, ma nella mia testa è così. Ho mollato lettere moderne perché tutti mi bollavano come un professorino, un futuro critico con giacchetta e faccia da cazzo, pronto a pontificare sul niente. Mio padre è stato il più grande medievista d’Europa, siamo qui per lui. Quando viene a comprare bomboloni e millefoglie dove lavoro, solo perché mia madre l’ha costretto, non riesce neanche a guardarmi negli occhi. Si sente lo zimbello del mondo accademico. A me lavorare in pasticceria piace, ora facciamo anche le colazioni, l’ho convinta io Miranda a mettere la macchina per il caffè e a far fare i croissant alla francese a Ghengo. Che poi si chiamerebbe Gregoire, ma vabbè.

Lona tira fuori dalla tasca un “manufatto-proiettore di tipo C”, perché si chiami così non l’ho mai saputo, abbiamo trovato solo questi su al cantiere. Tira fuori la chiavetta, dall’assurda forma ramificata, e la infila nella serratura. Dopo il “clac” parte la sua proiezione organica preferita. Suo padre, Emidio Zorzi, in tenuta da pescatore della domenica mentre insegna a Lona a catturare trote. Dopo sto uno schifo, le proiezioni organiche fottono alla grande il mio senso di realtà, lo divorano lentamente per poi rivomitarlo nel mio cervello imbalsamato.

«Sei proprio una cogliona sentimentale.»

Mi sorride, e come al solito non capisco cosa significhi, potrebbe essere disprezzo, commozione, o semplicemente pensa che sia un cerebroleso.

Il portellone del cantiere risplende brillante sotto la luce del “manufatto-biruota Z”, di notte possiamo usarlo. Per il nome stesso discorso di prima, ce n’è un bel po’ di ’sta roba qui a Negapoli. Ci infiliamo nel passaggio aperto nella recinzione elettrificata, che poi non è più elettrificata da un bel po’. Siamo cresciuti disegnando mappe del cantiere e delle gallerie. Ci affascinava non sapere dove si potesse arrivare una volta dentro, immaginavamo bunker segreti affollati da mostri mezzo animali mezzo macchine, impegnati in una lotta disperata per la sopravvivenza del più forte. Come andare via da qua? Da questa scarica di mistero feroce e perverso che frusta il cervello ogni volta che pensi che la tua vita sia solo liceo, università e turni, turni e altri turni. Ogni volta che li vedo, i giganteschi macchinari di fronte alla bocca della galleria sembrano ancora in attesa di ordini, di qualcuno che riveli loro il motivo della loro origine, la loro funzione estinta.

«Sono perfetti nella loro inutilità.»

«A qualcosa saranno serviti.»

Rispondo secco, infastidito, mi turba che esista qualcosa di così elaborato e tuttavia privo di uno scopo, è una cosa che mi dà la nausea, non so perché. Lona mi fa una smorfia, penso che lei sia l’unica in grado di capire i macchinari del cantiere, sono creature simili. A me questo posto fa pensare a un cimitero degli elefanti, solo più esotico. I manufatti mi terrorizzano, ma li uso in segreto, come tutti quelli che ne hanno uno.

Adriano Manca

Blam

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