Crepitio di stelle di Jón Kalman Stefánsson: la poesia nascosta nelle pieghe dell’esistenza. Recensione
Se c’è una caratteristica che abbiamo imparato ad amare di Jón Kalman Stefánsson è la liricità del suo racconto. Non è niente di sorprendente, considerato che nasce come poeta, più che romanziere. Eppure, è raro trovare uno stile tanto ricercato e immaginifico, dove la natura si fa interprete dell’uomo o, più specificatamente, le stelle si fanno tacite testimoni di una notte d’amore. È questa l’impronta di Crepitio di stelle, l’ultimo tradotto da Iperborea alla fine del 2020. Che si trattasse di un esordio era difficile immaginarlo, a meno che non lo si sapesse in partenza, perché leggendo questo libro si ha la sensazione di avere a che fare con il senso tutto della vita e della morte, dell’amore e della vendetta.
Crepitio di stelle: la trama del libro di Jón Kalman Stefánsson
Crepitio di stelle è un libro sulla memoria e sul passato, e infatti la voce narrante non fa che riannodarne i fili, seguendo due linee di ricerca: da una parte, la storia della sua famiglia, di generazione in generazione; dall’altra, quella della sua infanzia a Reykjavik, in Islanda.
Il racconto inizia con un bambino che gioca con dei soldatini, solo, tutto immerso nel mondo di fantasia che ha creato attorno a sé per evadere dal trauma che ha vissuto. La madre, infatti, è morta, strappata da una malattia logorante e corrosiva. Ora sta in una bara, sottoterra, e il bambino si chiede come stia, se riesca a respirare, se possa cantare. Finché, a un certo punto, arriva una donna. È austera, gelida. Il bambino impara che si chiama matrigna e che è lei che si occuperà di lui. Ci si potrebbe chiedere come, dato che il fantasma della mamma si aggira ancora per le stanze, e il suo ricordo morde come un vento gelido in una notte d’inverno.
Quasi un secolo prima, bisnonno arriva in Islanda. Sogna avventure, viaggi, una vita frizzante; sogna l’amore, quello che ti travolge come una furia, e poi i soldi, la ricchezza, il successo. Bisnonno ha un problema con l’alcool, però, e l’alcool si sposa male con l’ostinazione e il lavoro che ci vogliono per raggiungere la vetta. E allora la vita va diversamente, va che bisnonno conosce bisnonna e i due si amano sotto le stelle, almeno finché la tentazione della bottiglia non torna a bussare alla porta. La vita accade, passano gli anni, c’è nonno e poi c’è mamma, c’è il presente e il passato, ed è un continuo viavai nel tempo, in questo tempo universale che ci coglie sempre impreparati.
Un libro sulla quotidianità dell’esistenza e sulla morte
Ci sono dei romanzi che raccontano vicende esemplari, intrecci mitici; romanzi che ci si attaccano addosso perché esplorano tutto un mondo che, nella vita reale, non ci è concesso. E poi ci sono i libri che raccontano l’esistenza quotidiana: le speranze, gli amori, le disillusioni, i tradimenti, i momenti in cui si incespica, il sogno di trasferirsi, il lavoro estenuante, una conchiglia sotto al letto, la magia di un pomeriggio in cui un uomo è entrato in casa e ha scorto, per la prima volta, due occhi nerissimi come un pozzo.
Crepitio di stelle rientra decisamente in questa seconda categoria. È un romanzo che racconta la vita, il semplice movimento quotidiano dell’esistenza, e tutti quei dettagli che si perdono nelle giornate che ci lasciamo alle spalle. Ma è anche un romanzo sulla morte, che «è più pesante della vita», sul dolore della perdita, sul trauma che ne scaturisce. È un bambino a raccontarla, e forse proprio per questo è difficile resistere alla tentazione di commuoversi, mentre si legge. E non perché questo libro indugi volutamente in certi particolari in modo da accattivarsi il lettore, quanto perché ci sono esperienze che sono universalmente disarmanti, nei loro dettagli più minimi, nel tono di una voce che si spezza, nel silenzio di un pomeriggio in cui, sul divano, non resta che un solco, laddove, prima, si trovava una presenza familiare.
L’amore come motore del racconto
In questo racconto di generazioni e generazioni, il motore, oltre al tempo, è l’amore, in tutte le sue declinazioni. L’amore per la famiglia, per esempio; l’amore per un amico che fa sempre gli stessi errori, ma alla fine bisogna perdonarglieli; l’amore per un uomo e per una donna, che si consuma, ingenuo, quando si è giovani; l’amore per la casa, questo simbolo identitario che racconta di noi più di quanto possano fare le parole. È un amore tenace, intenso, che resiste agli urti e si erge su un’ostinata fedeltà. Ma è anche un amore che coglie d’improvviso, quando meno lo si aspetta, mentre si fanno progetti, mentre si programma un viaggio nell’Ovest, tra i pescherecci, per racimolare qualche soldo.
«Di che cosa sono fatti i legami che uniscono due persone, e che nel disorientamento generale sono stati definiti amore? È una domanda importante perché a volte sembra proprio che niente riesca a separare due persone, né l’implacabile inerzia della quotidianità né la forza esplosiva di un singolo istante. E lo dico da disorientato, perché sospetto che questa parolina, amore, sia sinonimo di talmente tante cose che non mi basterebbe un giorno intero per spiegarle tutte.»
Una scrittura notturna
La scrittura di Stefánsson è notturna, come in un certo senso anticipa il titolo: coglie le ombre, i luccichii, i sogni soffocati nel cuscino. È un’architettura che monumentalizza la natura, il dettaglio, l’odore di un corpo o il brillare delle stelle. E nonostante questo, rimane area, proprio come la poesia: plana sul paesaggio, lo accarezza, ne svela le trame nascoste.
Si tratta di uno stile che ha ancora da affinarsi, rispetto alla liricità invadente che caratterizza romanzi successivi come Paradiso e inferno: in questo esordio, la dimensione narrativa prevale sul vagheggiamento romantico. E forse proprio per questo il romanzo scorre via rapidamente, come un paesaggio dal finestrino di un treno. Le storie si susseguono, si intrecciano, il presente ricuce il passato, il passato invade il presente e gli dà compimento. È un romanzo che si apre nel segno della memoria e si chiude nel segno dell’oggi, che attraversa la vita e la morte, lo spazio e il tempo. E arrivati alla fine si ha davvero la sensazione di aver sbirciato in una vita intera altrui, con tutte le sue complicanze e le sue contraddizioni. Non ci sono messaggi da serbare, c’è solo la potenza dell’esistere, nuda e spigolosa, travolgente come una fiumana.
«Sei vite, centocinquant’anni e un marinaio dai capelli rossi; avrei avuto bisogno della lingua intera, per raccontare di loro come si deve. E presto non ci sarà niente a ricordarli, se non una conchiglia di strombo e un sasso che sembra un esserino.»
a cura di Rebecca Molea