Il racconto della domenica: Mi fai soffrire di Giovanni Cugliari
Sono bravo a scrivere racconti, eppure fino a un po’ di tempo fa la mia vena creativa era morta. Ho vinto anche premi in denaro che mi hanno permesso di togliermi qualche sfizio. Poi la settimana scorsa la lampadina si è riaccesa. Un’idea semplice ma interessante.
Ho esitato prima di imbastire il racconto, fino a quando su Facebook non si è materializzato un annuncio letterario che diceva che avrebbero premiato il miglior racconto pervenuto entro 24 ore con la pubblicazione su un’antologia.
Appena dopo aver visto le condizioni di partecipazione, mi sono acceso una sigaretta per il gran nervoso. Poi un’altra e un’altra ancora. Ho picchiato il pugno sulla scrivania fino a quando non ho riletto bene l’annuncio che aggiungeva di dare la possibilità al vincitore di scrivere un romanzo per la stessa casa editrice, con tanto di contratto vero e proprio.
Troppo tardi. Non sarei riuscito a consegnare il racconto in tempo.
Ho scosso la testa, ho strattonato la stampanate dai cavi e l’ho scagliata contro il televisore.
Ci avrei provato lo stesso. Quello stesso pomeriggio mi sedetti al tavolo per provare a buttare giù qualche riga ma mia mamma si diede da fare per rompermi.
«Stai cercando qualche offerta di lavoro?»
«No ma’, sto scrivendo un racconto.»
«Un racconto?»
«Sì, per un concorso.»
«Non gli vuoi proprio bene a tua madre, eh? Fai di tutto per farmi sentire una merda.»
«Mamma, con il virus in giro le fabbriche sono chiuse!»
«I supermercati sono aperti!»
«Non voglio lavorare nei supermercati!»
«Non so più cosa devo fare con te!»
La conversazione mi irritò parecchio e soffocai il fastidio per quelle parole accendendomi un paio di sigarette.
«Di nuovo fumi? Mi prende la gola a me, il fumo, lo sai?»
«Vado fuori in balcone, ma’!» dissi cercando di tranquillizzarla.
«Non la senti la televisione? Quello che si dice sul fumo?»
Non risposi e mi rifugiai in balcone. Riflettei e mi convinsi che non dovevo assecondare gli sbalzi d’umore di mia madre, ma che avrei dovuto impormi e impegnarmi in quello che ritenevo giusto, come avevo sempre fatto.
Dopo qualche minuto, tornai deciso a riprendere il racconto.
«Ho avuto sfortuna nella vita,» bofonchiò lei fra sé. «Ho avuto sfortuna con i figli, con il lavoro, con le amiche…»
«Ma’, basta!» gridai. «Posso scrivere, per favore?»
«Servisse a qualcosa!»
«Serve a me, va bene? Non ho più cinque anni! Se mi va di scrivere un racconto, scrivo un racconto. Se non mi va di andare a lavorare nei supermercati, non ci vado!»
«Fai come vuoi.»
Continuò a parlarmi dietro, sembrava che non smettesse mai. Provai a non badarci.
Iniziai a buttare giù le prime righe. Le frasi prendevano forma e mi parevano anche belle.
Mi fermai e, per festeggiare la costruzione dei primi periodi, mi fumai un paio di sigarette in camera mia.
«Di nuovo fumi?» mia madre mi beccò per la seconda volta.
«Ma’, puoi farti i cazzi tuoi per una volta?»
«Vuoi fare la fine di quello scemo di tuo padre?»
«Ma’, smettila per favore!»
Fumare così tanto quel giorno mi provocò un abbassamento di pressione. Caddi a terra privo di sensi mentre facevo l’ultimo tiro.
Il medico di famiglia si presentò a casa nostra dopo un’ora.
Mia madre si mise a piangere. Mi disse che non avevamo più soldi e che eravamo indietro con l’affitto. Gli chiesi come fosse possibile e mi confessò che li aveva spesi per comperare cose alle televendite su Canale 5.
Quando il medico finì gli accertamenti e mi diede l’ok, ripresi subito a scrivere.
«Perché?» urlò mia madre, appena mi rivide davanti al computer. «Perché sei venuto a rovinarmi la vita?»
Persi la testa. La concentrazione se ne andò a farsi fottere, non ne potevo più. Spostai il racconto nel cestino del computer e scappai in camera.
Mia madre continuò a inveirmi contro.
«Cercati un cazzo di lavoro!»
Mi feci prendere dal panico, afferrai il fermacarte che avevo dentro il cassetto del comodino e la colpii al petto. Una. Due. Tre volte. Dopo giaceva a terra sporca di sangue. Mi accesi una sigaretta per festeggiare.
Giovanni Cugliari